Home » Le bugie sull’inquinamento da plastica in mare

Le bugie sull’inquinamento da plastica in mare

Le bugie sull’inquinamento da plastica in mare

Dietro-front degli scienziati. Ora dicono che Pvc e simili riversati ogni anno negli oceani non sono 8 milioni di tonnellate (cifra su cui tanti attivisti hanno sguazzato), ma 500 mila tonnellate. È comunque un disastro. Ma i pro e i contro della raccolta a strascico sono da valutare.


Negli oceani affondano le bugie dell’eco-catastrofismo. Dopo aver alimentato la storia che ogni anno si riverserebbero in mare ben otto milioni di tonnellate di plastica, provenienti dalla terraferma, gli scienziati si sono accorti di aver commesso un errore di valutazione grande quanto una balena e hanno in sordina tentato di correggere il tiro. In un articolo pubblicato qualche settimana fa su Nature Geoscience, è stato presentato un nuovo modello di calcolo che fissa l’asticella molto più giù: a 500 mila tonnellate all’anno. In pratica, gli scienziati, forse vittime dell’eco-ansia, hanno sballato del 1.600 per cento la previsione. Una bazzecola, insomma.

Il precedente dossier, anch’esso pubblicato su Nature Geoscience nel 2015, aveva rappresentato la piattaforma ideologica della battaglia campale contro i processi industriali occidentali. Una bomba (di profondità) che aveva orientato e piegato le politiche ambientali di oltre un centinaio di nazioni più o meno avanzate, a eccezione dell’impassibile gigante cinese che, allora come oggi, pur essendo il più pericoloso insozzatore del pianeta si guarda bene dal firmare impegni vincolanti che ne limitino la libertà di inquinamento. Gli autori del vecchio studio, per rendere ancor più drammatica la loro (sballata) scoperta, avevano pure scritto in una relazione introduttiva che a ogni «metro di costa nel mondo» corrispondevano «cinque sacchi pieni di plastica». Aggiungendo che entro il 2025, quindi a poco meno di un anno e mezzo da oggi, i sacchetti di plastica per «ogni metro di costa» sarebbero aumentati, diventando «addirittura 10». E Greta Thunberg si era tuffata nel disastro annunciato con un appello dai toni alla Armageddon: «Il problema dell’inquinamento della plastica negli oceani è peggiore di quanto potessimo immaginare. C’è più microplastica a 300 metri di profondità che sul Great Pacific Garbage Patch. Non possiamo continuare così».

Nulla comunque a paragone delle profondità delle sciocchezze dei sedicenti esperti. Ci sarebbe da aggiungere che una fazione minoritaria di ricercatori eco-apocalittici si era spinta a ipotizzare uno scenario persino più grave di quello cristallizzato nel 2015: non già otto, ma addirittura 13 milioni di tonnellate immesse negli oceani ogni anno. Un valore che avrebbe reso difficoltosa qualsiasi attività ittica o di navigazione nel giro di qualche tempo. Ma evidentemente era così complicato mantenere in piedi il castello di carta che questa cornice fantascientifica è stata subito abbandonata dagli eco-fanatici. Che i vecchi calcoli non tornassero, tuttavia, si poteva capire già da un dettaglio: nel 2020 erano stati stimati circa 3,2 milioni di tonnellate di detriti di plastica in galleggiamento. Una cifra enorme, certo, ma nemmeno lontanamente compatibile con quella presupposta dall’analisi del 2015 che teorizzava un afflusso, appunto, di otto milioni di tonnellate ogni 12 mesi.

Dunque, c’era qualcosa che non quadrava. L’indagine odierna, invece, rende tutti i parametri assai più coerenti. Questo non significa che la situazione, dal punto di vista dell’inquinamento marino, sia ottimale o che possiamo cullarci sulle onde dell’ottimismo. La plastica, corrosa dai raggi del sole e dalla salinità dell’acqua, si spacchetta in milioni di frammenti che danneggiano la fauna marina e, indirettamente attraverso la catena alimentare, anche la salute umana. Molti pesci la mangiano e tanti altri, invece, muoiono di fame perché la presenza di polimeri e composti sintetici distruggono il loro apparato digerente. In un modo o nell’altro è necessario intervenire. Tanto più che il ritmo, quantificato dall’ultima ricerca pubblicata su Nature Geoscience, di un aumento costante del 4 per cento della quantità di plastica che finisce in mare non può lasciare indifferenti. Scrive a tal proposito la rivista scientifica: «La combinazione di un aumento esponenziale previsto dell’input e di una lunga persistenza della plastica marina significa un probabile aumento dell’impatto negativo dell’inquinamento marino da plastica sugli ecosistemi in futuro».

Soprattutto se, a quanto par di capire, i Paesi delle zone subtropicali rinunceranno a prendere provvedimenti per frenare la corsa degli iceberg di Pvc che si stanno spostando sempre più a Sud del pianeta. Raccogliere dal mare la plastica ha infatti un duplice, altissimo costo. Uno di tipo economico per gli investimenti e le tecnologie da impiegare; l’altro di tipo ambientale per le ferite inferte alla flora e alla fauna marina per la pesca a strascico dei detriti dal fondo. Difficili sì da smaltire ma sempre meno resistenti dei pregiudizi di chi è convinto che l’estinzione sia dietro l’angolo.

© Riproduzione Riservata