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Un caffè ti salva la vita (è quasi un farmaco)

Un caffè ti salva la vita (è quasi un farmaco)

La bevanda psicoattiva più diffusa al mondo ha una serie di effetti positivi sulla salute che solo ora la scienza inizia a scoprire. Chi ne beve fino a cinque tazzine al giorno si ammala di meno di chi non ne consuma. E fa altrettanto bene quello decaffeinato.


Ogni giorno, 4 miliardi di persone (un po’ più della metà degli abitanti del pianeta, così dicono le cifre) si svegliano e, prima di ogni altra cosa, cercano di raggiungere la più vicina fonte di caffeina, che sia un bar o la moka di casa, per trasformarsi da zombie in esseri umani produttivi. E quel gesto ripetuto porta,su base annua, a qualcosa come 500 miliardi di tazzine di caffé consumate al mondo.

La sostanza psicoattiva più diffusa sulla Terra vanta, del resto, innumerevoli virtù, che la scienza continua a scoprire. L’ultima notizia viene da indagini preliminari della University Medical Center di Rotterdam, in cui si è visto che il consumo regolare induce cambiamenti epigenetici nel Dna. Significa, in parole semplici, che modifica il modo in cui alcuni nostri geni vengono espressi. E questo spiegherebbe la ragione per cui, in studi osservazionali, il caffé sembra essere protettivo per molte malattie: diabete, Parkinson, Alzheimer (forse), patologie cardiovascolari, depressione.

Nella loro meta-analisi, che ha riguardato 15 studi epigenetici condotti su 15.800 persone tra Europa, Stati Uniti e Africa, gli scienziati olandesi hanno visto che il caffè agisce ponendo alcuni geni sulla posizione «off» oppure «on». I dettagli sono troppo complicati da spiegare qui, ma le conclusioni suggeriscono che una tazzina di caffè, ricco di polifenoli, antiossidanti e modulatori enzimatici, è quasi un farmaco. «Nella grande maggioranza delle patologie, si è osservata un’associazione inversa con il consumo di caffé: chi ne beve di più ha una minore incidenza di malattie cardiovascolari, tumori, diabete di chi ne beve meno» conferma Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca presso il Crea (il principale ente italiano di ricerca agroalimentare) e presidente della Società italiana di Scienza dell’Alimentazione. «La stessa correlazione inversa si osserva nel Parkinson e in alcune forme di demenza». Quindi più ne beviamo meglio stiamo? Non proprio. Il range ottimale è intorno alle 3-5 tazzine al dì, quantità che in generale non dà problemi (come tachicardia o eccessiva acidità). «La tolleranza è estremamente individuale e anche legata al peso, ma in genere non si osservano effetti avversi fino a 400 mg di caffeina al giorno -5,7 mg/kg- nell’adulto. Ma si intende un peso sano: non è che un obeso può consumarne litri» osserva Ghiselli. Qualche fanatico della caffeina ne beve anche dieci al giorno, se li tollera buon per lui.

Ma il consumo suggerito resta inferiore ai cinque quotidiani. Essenziali, soprattutto in ufficio, anche per coagulare squisiti pettegolezzi e irrinunciabili banalità, altrettanto efficaci per l’equilibrio psicofisico. E pensare che fino a 400 anni fa, questa blanda e amatissima «droga» era praticamente sconosciuta al di fuori dei confini del mondo arabo. A scoprirla nel 9° secolo in Etiopia fu, così si racconta, un pastore che aveva notato come i suoi animali restassero svegli tutta la notte dopo averne mangiato le ciliege (o drupe, in termini botanici). Ci si accorse ben presto che il composto chimico prodotto dalla pianta per tenere lontani gli insetti, la caffeina, alterava la mente umana rendendola più reattiva ed efficiente.

Da allora, come scopriamo dal libro Coffeland di Augustine Sedgewick (appena uscito negli Stati Uniti), «abbiamo dedicato alle piantagioni di caffè oltre 27 milioni di acri di nuovi habitat, fino a renderla una delle coltivazioni di maggior valore mondiale». Anche se ora (i Paesi produttori sono una settantina), le piantagioni sono minacciate dai cambiamenti climatici: la loro temperaura ideale media va dai 18 ai 21 gradi, e man mano che il pianeta si scalda bisogna spostarle più in quota, dove c’è meno terreno. Entro il 2050, si stima che metà del suolo dedicato al caffé subisca pesanti riduzioni.

Oggi, sul mercato, l’offerta di prodotti con cui riempire caffettiere e cialde supera quasi la nostra umana capacità di scelta. In questa girandola di gusti, aromi, miscele, provenienze, ci aiuta Moreno Faina, direttore dell’Università del Caffè a Trieste (fondata da Illy, 27 sedi al mondo). Intanto, già solo sapere che esiste un’Università del caffè ci sembra meravigioso: i suoi corsi, sulla storia della pianta, la botanica, le fasi di raccolta e produzione, attirano non solo coltivatori e professionisti del settore, ma anche chi il caffé si limita a berlo. «Oggi esistono circa 120 specie di caffè, almeno quelle conosciute, e l’Etiopia ne è la culla. La Coffea arabica pura, al 100 per cento, ha 44 cromosomi, il doppio della Coffea canephora, meglio conosciuta come Robusta, e ha una complessità aromatica superiore» spiega. «Oggi, sul mercato, l’Arabica viene declinata in diverse varietà, miscelate per dare costanza qualitativa al prodotto». L’Arabica al 100 per cento (che costa di più e contiene metà caffeina) ha uno spettro che va verso note fruttate, fiorite, caramellate, la Robusta ha un sapore più terroso e aggressivo.

Il decaffeinato, infine. Considerato il prodotto per chi vorrebbe ma non osa, per chi gli piacerebbe «ma poi non dormo», due buone notizie. Intanto mantiene i benefici sulla salute; e poi, assicura Faina, «oggi i metodi con cui si rimuove la caffeina sono controllati e verificati, e sicuramente non dannosi. Sono tecniche che utilizzano acqua, anidride carbonica in stato gassoso o liquido, o solventi organici. Un caffé ottimo resta tale anche decaffeinato».

Il rito del caffè, alla fin fine, prescinde dal suo sapore. Torneranno i giorni in cui potremo ricominciare a ordinarlo al bar, o prenderlo alla macchinetta dell’ufficio digitando petulanti opzioni (amaro, dolce, decaffeinato, normale, forte, ginseng, con latte, senza latte, espresso, lungo, cioccocaffè). E ci sembrerà, finalmente, squisito.

PERCHE’ A MILANO IL CAFFE’ MEDIAMENTE NON E’ BUONO?

Un caffè ti salva la vita (è quasi un farmaco)
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«In parte dipende dall’acqua, ma non solo. Anche volendo dare una risposta semplice, le variabili in gioco sono tante» dice Moreno Faina, direttore dell’Università del Caffè a Trieste (fondata da Illy, 27 sedi al mondo). «In una piantagione, la fioritura avviene dopo 9 mesi, la ciliegia deve essere raccolta nel momento giusto, se in anticipo o in ritardo il sapore può diventare acidulo, o fermentato. Il frutto va pulito, la buccia rimossa, la polpa fatta asciugare e i chicchi ottenuti messi in un sacco; in due-tre mesi viene trasferito all’industria che lo trasforma, ne verifica il livello di caffeina, miscela la qualità con altre, e mentre i chicchi vengono tostati, il loro volume raddoppia, il caffé si arricchisce di aromi. Ma va protetto, non deve entrare in contatto con l’ossigeno altrimenti gli oli contenuti nel chicco si ossidano. Infine, arriva al bar o a casa nostra».

E poi, ovvio, dipende dal barista. Anche la migliore miscela entra nella macchina del caffè dove occorre calibrare temperatura dell’acqua e pressione, il macinadosatore che trasforma i chicchi in polvere deve avere lamine adeguate che non li brucino, sennò il sapore si fa amaro e astringente. L’acqua è meglio se poco calcarea, oltretutto. E a Milano non lo è.

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