Le recenti dichiarazioni del capo di Stellantis hanno sottolineato gli alti costi di produzione in Italia, nonostante i bassi stipendi dei lavoratori. Intanto, il gruppo nato dalla fusione di Fca e dal colosso d’Oltralpe Psa punta su sovvenzioni pubbliche per le «gigafactory», fondamentali per i nuovi motori elettrici. Ma non sarà solo l’economia del nostro Paese a beneficiarne…
Cambiano gli attori ma la trama è sempre la stessa: che si chiami Fiat, Fca o Stellantis, il protagonista dell’industria automobilistica nazionale alla fine si presenta al governo di turno battendo cassa. I suoi top manager spiegano che la situazione è difficile, che gli investimenti necessari per uscirne sono colossali e, insomma, senza i soldi dello Stato non ce la si fa. Sullo sfondo, il coro dei sindacati ammonisce: sono in pericolo migliaia di posti di lavoro! Così il governo deve mettere mano al portafoglio. Meno male che adesso ci sono i fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e pazienza se andranno a finanziare un’azienda a maggioranza francese.
Questa volta al centro della scena c’è Carlos Tavares, portoghese, 63 anni, amministratore delegato di Stellantis, gruppo automobilistico nato poco più di un anno fa dalla fusione tra la francese Psa e l’italo-americana Fca (Fiat-Chrysler). I suoi padroni sono la famiglia Agnelli con il 14,4 per cento della società, i Peugeot con il 7,2 per cento destinato a salire all’8,7 e poi lo Stato francese con il 6,2. Tavares, dopo una fase iniziale dai toni rassicuranti, ultimamente ha cambiato registro e ha lanciato una serie di messaggi allarmanti. Ha dichiarato che la scelta europea di puntare sulle auto elettriche è politica, fa alzare il prezzo delle vetture e avrà conseguenze sociali. Ha denunciato gli squilibri del sistema industriale italiano: «Un anno fa abbiamo scoperto che il costo per produrre un’auto in Italia era significativamente più alto, a volte doppio, rispetto a quello di altri Paesi europei. Questo nonostante un più basso costo del lavoro». E ha raffreddato gli entusiasmi sulla trasformazione dell’impianto di Termoli in una fabbrica di batterie, la cosiddetta gigafactory: «Con il governo non abbiamo ancora concluso» ha detto in un’intervista al Corriere della Sera.
Non ci vuole un genio per capire che si tratta di una serie di segnali inviati ai politici per ottenere più fondi pubblici. È vero che per le case automobilistiche la situazione è complicata e l’abusata coppia di parole «tempesta perfetta» è appropriata, visto che sul settore si sono abbattute contemporaneamente la pandemia di Covid-19, la crisi dei microchip e la transizione energetica. Con il risultato di far crollare produzione e vendite: nel 2021 in Europa le immatricolazioni sono state il 25 per cento in meno rispetto al 2019, in Italia il 27 per cento. Ma è altrettanto vero che nel primo semestre del 2021 il gruppo Stellantis ha realizzato un utile operativo di 8,6 miliardi, con un margine sul fatturato dell’11,4 per cento, e le previsioni sull’intero anno passato sono positive. Del resto, è così che funziona il mondo dell’auto, «too big to fail», troppo grande per fallire.
I suoi dirigenti ben pagati (Tavares ha uno stipendio di 6 milioni di euro) ottengono di continuo dallo Stato, cioè dai contribuenti, gli aiuti per tenere in piedi un settore che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone, per poi farsi belli davanti agli azionisti con bilanci ricchi di utili e dividendi. Prendiamo il caso delle gigafactory. Le grandi fabbriche di batterie sono fondamentali per il futuro dell’auto visto che sono proprio le batterie i componenti più importanti delle vetture elettriche. E tutte le case occidentali si stanno attivando per mettere in piedi gigafactory ed evitare così di dipendere dai produttori asiatici, leader in questo campo. Ma per farlo, chiedono e ricevono contributi pubblici: l’Europa fornirà fino a 2,9 miliardi di euro di finanziamenti per sostenere la nascita di fabbriche di batterie; Britishvolt ne vuole costruire una in Inghilterra con un investimento da 4,5 miliardi e dovrebbe ottenere dal governo almeno 100 milioni di sterline; il ministero dell’Economia tedesco ha promesso una garanzia statale di 525 milioni di dollari per sostenere la costruzione dello stabilimento di batterie Northvolt a Skelleftea, nel nord della Svezia.
Tesla ha investito 5 miliardi in Germania per il suo nuovo impianto berlinese e ha rinunciato ai fondi messi a disposizione dall’Europa ma non a quelli offerti dal Brandeburgo. L’8 luglio 2021 Stellantis ha annunciato che costruirà tre gigafactory, una in Germania, una in Francia e una a Termoli, in Molise. Qui c’è un impianto che produce motori e cambi e dove lavorano 2.373 persone, che in prospettiva rischiano il posto con l’avvento delle motorizzazioni elettriche. A realizzare la fabbrica di batterie sarà la Acc, Automotive cells company, società creata da Stellantis e dalla francese Total cui si è unita la tedesca Mercedes. L’investimento per la trasformazione di Termoli in una gigafactory è stimato in 2,5 miliardi: un po’ ne tirerà fuori l’azienda, qualcosa arriverà dal fondo speciale europeo per le batterie, ma bisognerà vedere soprattutto quanti soldi ci metterà il governo italiano. Il Pnrr italiano assegna meno di un miliardo allo sviluppo della filiera della batterie mentre il ministero dello Sviluppo prevede di stanziare 2,2 miliardi per il sostegno della competitività delle industrie strategiche del Paese, tra cui l’automotive. Così, finanziando la gigafactory di Termoli, si aiuterà paradossalmente un’azienda, l’Acc, il cui capitale è in maggioranza francese e in parte tedesco. Ma la gigafactory di Stellantis non sarà l’unica in Italia, ne dovrebbero sorgere altre due: ci saranno soldi per tutti?
Oltre a mettere in fibrillazione i sindacati segnalando i ritardi nella trattativa su Termoli, Tavares ha sganciato una bomba sugli impianti italiani del gruppo, definendoli troppo cari anche se i loro operai sono pagati meno che in Francia o in Germania. Costruire una vettura come la «500» costerebbe dunque molto di più rispetto a fabbricare una Peugeot o una Opel. Possibile? Gli Agnelli e i loro manager come Sergio Marchionne hanno sbagliato tutto? Come sottolinea Mauro Tedeschini, ex direttore di Quattroruote e fondatore del sito Vaielettrico, «per anni abbiamo raccontato che, grazie al famoso World class manufacturing, gli impianti di Fca avevano raggiunto livelli di eccellenza nel mondo. E che stabilimenti come Pomigliano, in passato considerati il buco nero dell’industria italiana, erano diventati gioielli studiati dalla concorrenza di tutto il mondo. Poi arrivano i francesi, con Stellantis, ed emerge tutto il contrario».
Di sicuro Tavares ha ragione su un punto: il costo dell’energia in Italia è più alto che negli altri Paesi. Secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, nel 2019 un utente industriale italiano pagava in media l’elettricità quasi 200 dollari al megawattora, record assoluto, contro i 150 scarsi di un tedesco o i 60 di un americano. E ora con il rincaro del gas il quadro è peggiorato. Ma in generale le classifiche internazionali sul costo di produzione non ci collocano malissimo: intorno al ventesimo posto, appena dopo la Francia.
Il top manager di Stellantis allora esagera? «Il tema sollevato da Tavares fa sottintendere problemi di organizzazione del lavoro» sostiene Rachele Sessa, vicedirettore della Fondazione Ergo e autrice di libro Perché le fabbriche fanno bene all’Italia. «Qualche rigidità nelle fabbriche d’auto italiane c’è ma il modello produttivo ex-Fca è stato tarato sulla produzione di vetture premium come Alfa, Maserati e la 500 elettrica. Sono gioielli che richiedono un metodo di lavoro che ne garantisca alta qualità e andrà tutelato nei suoi aspetti di ricerca dell’eccellenza se si vuole continuare a produrre, come sembra di aver capito, auto di lusso e non semplici utilitarie».
Ferdinando Uliano, responsabile settore automotive della Fim-Cisl, ritiene che i maggiori costi delle fabbriche italiane di Stellantis rispetto a quelle in Francia e negli altri Paesi potrebbero derivare da una minore standardizzazione della produzione: il gruppo Psa tende ad avere il più possibile omogenea, in auto diverse, tutta la componentistica che il cliente non vede, come gli impianti elettrici. Oppure elimina dal catalogo colorazioni poco richieste. Poi i fornitori sarebbero più cari in Italia, dato che spesso sono aziende più piccole rispetto al resto d’Europa e quindi con minori economie di scala.
Taglia corto Michele Di Palma, segretario nazionale della Fiom: «La verità è che i costi sono alti perché produciamo poco, gli stabilimenti sono sotto-utilizzati. A fronte di una capacità installata di un milione e mezzo di veicoli, attualmente se ne fabbricano solo 700 mila. Quindi bisogna aumentare la produzione. Il nostro timore è che la contrazione del mercato europeo dell’auto venga pagato solo dal sistema industriale italiano». Anche perché, verrebbe da aggiungere, in Stellantis lo Stato francese c’è. Quello italiano no. n
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