Tra Piemonte e Valle d’Aosta le cosche si sono perfettamente inserite nel settore del turismo e ora approfittano anche della crisi economica post Covid come di albergatori e ristoratori lasciati soli. Per favorire e, quando serve, per rilanciare gli affari esercitano pressioni su politici e coinvolgono avvocati e imprenditori locali. Come dimostrano le ultime inchieste.
Dopo anni nelle retrovie, a fare i lavori più umili, con la pandemia è come se fosse arrivata l’ora di mettersi in prima fila ad accogliere i visitatori. Alberghi, agriturismi, discoteche, ristoranti. In Piemonte e in Valle d’Aosta la ‘ndrangheta sta tentando il salto di qualità, complice la crisi economica. Nella prima settimana di maggio, tra Calabria, Piemonte e Valle d’Aosta sono state arrestate 52 persone, accusate di associazione mafiosa, estorsioni, riciclaggio, intestazione fittizia di beni. Per la prima volta, in Valle, è finita agli arresti un’avvocata, Maria Rita Bagalà, figlia di Carmelo, ritenuto dalla Dda di Catanzaro il capo dell’omonima cosca del Lametino. Lei e il marito, l’avvocato aostano Andrea Giunti, gestivano, con prestanome, una società con una ragione sociale che non richiede spiegazioni: «Calabria turismo». Mentre in provincia di Torino, gli appartenenti alla famiglia Vazzana si lamentavano con gli amministratori locali che il santuario di Belmonte fosse in cattive condizioni, con indubbio danno per alberghi e ristoranti della locale ‘ndranghetista. Legittime aspettative di imprenditori comuni, ma non troppo.
Nella Vallée, tre degli ultimi quattro presidenti di Regione, (Antonio Fosson, Laurent Vierin e Renzo Testolin) sono indagati per voto di scambio con la ‘ndrangheta nelle Regionali 2018. Unico ex presidente non sfiorato dalle inchieste è la leghista Nicoletta Spelgatti, che ha regnato pochi mesi e alle ultime elezioni (settembre 2020) è stata rispedita all’opposizione dall’Union Valdotaine e dalle altre forze politiche, tutte contro una Lega capace di diventare primo partito con il 23,9 per cento dei voti. In Valle, i calabresi sono 35 mila (su 120 mila abitanti) e i loro voti pesano. O quantomeno, vengono fatti pesare.
Prima delle operazioni antimafia di maggio, non erano mancati allarmi precisi. Uno per tutti, quello lanciato da Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia: «Il rischio, nei momenti di difficoltà economica, è che le mafie riescano a infiltrarsi ulteriormente nell’economia, per esempio nel turismo: ristoranti, bar, alberghi e altre attività». Era il 9 giugno 2020 e già si litigava sui «ristori». A metà aprile, uno studio Demoskopika sulle infiltrazioni della malavita organizzata nel turismo stimava in 2,2 miliardi di euro il fatturato di Mafia Tour. La parte del leone la farebbe la ‘ndrangheta con 810 milioni di introiti annui (37 per cento del totale), con le attività ricettive del Nord-Ovest a incassare quasi mezzo miliardo. Che ristoratori e albergatori non andassero lasciati soli per mesi e mesi a lottare contro il Covid era, insomma, più che evidente. E il nuovo procuratore capo di Torino, Anna Maria Loreto, il giorno dell’operazione «Platinum», concentrata sulla locale di Volpiano, soprannominata «la Platì del Nord», ha spiegato che «in Piemonte non c’è alcuna zona che possa definirsi al riparo dall’infiltrazione mafiosa».
I fratelli Franco e Giuseppe Vazzana, arrestati il 6 maggio insieme ad altre 31 persone tra cui esponenti delle famiglie Agresta e Violi, secondo gl’investigatori della Dia di Torino guiderebbero il gruppo malavitoso di Volpiano, che spazia in buona parte del Canavese. Le intercettazioni ambientali li hanno sorpresi a fare pressioni su politici di centro, destra e sinistra (che non risultano indagati) perché il sito Unesco del Sacro monte di Belmonte sia rilevato dalla Regione e rilanciato.
In una telefonata del 30 aprile 2018, Franco Vazzana si lamenta con un amico che ha agganci con la politica piemontese: «Lì c’è questo benedetto Santuario… che è un po’ in decadenza… peraltro è patrimonio dell’Unesco. Vediamo se riusciamo a smuovere un po’ le coscienze di questo posto qua perché, minchia… è un monumento mondiale…lasciato così all’abbandono… è un peccato, eh!». «Avrei bisogno, se riusciamo, di parlare con quella… con quella signora lì… l’amica di Maurizio» continua Vazzana, e l’amico gli risponde: «Ma chi dici? La senatrice?». «Esatto» esclama il presunto boss.
La senatrice è Maria Virginia Tiraboschi (Forza Italia), imprenditrice nel settore turistico, che ha smentito ogni incontro e non risulta indagata. È storia, però, che nell’ultimo scorcio dell’amministrazione Chiamparino, alcuni esponenti Pd hanno tentato di far comprare il Santuario alla Regione, operazione poi congelata dalla giunta di centrodestra guidata da Alberto Cirio, insediatasi a giugno 2019.
Il motivo delle pressioni sulla politica è semplice: la cosca ha in zona alberghi e ristoranti che risentono del brusco calo del numero di pellegrini. «Io sono letteralmente rovinato senza il Santuario. Abbiamo diminuito il lavoro del 70 per cento e se i preti non dicono messa è un casino» si lamentava Vazzana. Nell’operazione «Platinum», firmata dal sostituto procuratore Valerio Longi, emerge che negli hotel controllati dalla ‘ndrangheta sono stati ospitati vari uomini dei clan per scontare gli arresti domiciliari nell’amato Piemonte, oppure che dovevano pernottare senza il fastidio della registrazione. Ma nello stile della casa, la base operativa del potente gruppo di Volpiano era nell’esercizio commerciale più modesto, un’edicola su una rotonda cittadina.
Un po’ meno mimetico, invece, un particolare emerso nel processo «Fenice» di Asti, che vede sul banco degli imputati per voto di scambio anche l’ex sottosegretario forzista (poi esponente regionale di Fdi) Roberto Rosso. Si tratta del gemellaggio turistico tra Carmagnola (Torino) e Sant’Onofrio (Vibo Valentia), con lo svolgimento in Piemonte della processione dell’Affruntata, che in Calabria si svolge il giorno di Pasqua, come segno tangibile della «calabresizzazione» del territorio a sud di Torino.
La mattina del 3 maggio scorso, con l’operazione «Alibante», scattano 19 arresti e il sequestro di società ed esercizi pubblici. La Dda di Catanzaro prende di mira il clan guidato dal presunto boss Carmelo Bagalà (79 anni), utilizzerebbe un ricco parterre di prestanomi, a cui intestava villaggi turistici e attività varie, finanziate con i proventi dell’usura. Nelle 438 pagine dell’ordinanza di arresto firmata dal gip Matteo Ferrante spunta un filone, ancora da sviluppare, che riguarda gl’investimenti delle cosche del Lametino in Valle d’Aosta. Si parla del tentativo di acquistare dal tribunale fallimentare di Aosta una discoteca dalle parti di Cervinia e a muoversi è una società controllata dai Bagalà, la «Calabria Turismo srl». Particolare inquietante: sono coinvolti due avvocati del Foro di Aosta, moglie e marito. Lei è Maria Rita Bagalà, 52 anni, figlia di Carmelo, la prima avvocata della Valle a finire agli arresti domiciliari, accusata di concorso esterno in associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori. Il marito è Andrea Giunti, 55 anni, di Aosta, civilista, indagato a piede libero, sospettato di aver aiutato moglie e suocero nel mascherare i loro interessi nel turismo.
Una coppia molto attiva e conosciuta nel capoluogo. La figlia del presunto boss, recentemente, ha affiancato Gilberto Lozzi, noto penalista torinese, nella difesa di Gerardo Cuomo, il principale grossista alimentare della Valle, sotto processo per corruzione a Torino con l’ex presidente della Regione, Augusto Rollandin (in primo grado condannato a 3 anni e 8 mesi).
Mentre Giunti, che di base si occupa di controversie di lavoro e dopo il matrimonio ha iniziato a difendere molti clienti in Calabria, ha difeso l’amico Rollandin dalle accuse di «impresentabilità» mossegli dalla Commissione antimafia guidata da Nicola Morra nel settembre del 2020. Quello che oggi fa più riflettere è che nel 2006 Giunti patteggiò una condanna a un anno e un mese di reclusione (con la condizionale) per favoreggiamento reale (il capo d’imputazione originario era riciclaggio), nell’inchiesta per le tangenti sull’alluvione. Ma questo «infortunio», anziché fermarne l’ascesa professionale, negli anni scorsi non gli ha impedito di fare incetta di incarichi legali con la Regione. Unico stop, come raccontano oggi ad Aosta, è che alle scorse elezioni il marito della figlia del presunto boss avrebbe dovuto essere candidato nella lista dell’Union Valdotaine. Visti i legami familiari, sarebbe stato un ottimo assessore per rilanciare il turismo in tempi di Covid.