La scomparsa della diciottenne Saman Abbas è l’ultimo episodio di violenza all’interno di una comunità chiusa in se stessa. Dove, al di là delle tradizioni arcaiche, preoccupano i traffici di migranti, il caporalato nel lavoro, una criminalità che si afferma nello spaccio di droga.
Dorme sepolta in un campo di grano e chissà se, come cantava Fabrizio De André, le fanno compagnia i papaveri rossi. Sulla tragica fine di Saman Abbas ammazzata semplicemente perché voleva vivere i suoi 18 anni gli «alti papaveri» si sono molto spesi ed esposti. Compresa la comunità musulmana che ha pronunciato una fatwa contro i padri che impediscono alle figlie di scegliere liberamente. Tutti guardano il dito delle polemiche e nessuno vede la (mezza) luna del degrado. Un’altra storia ormai sepolta nelle memorie della cronaca: è quella di Azka Riaz. Aveva 19 anni, era anche cittadina italiana, viveva a Recanati. È morta il 25 febbraio del 2018 perché il padre Muhammad Riaz, pachistano, dopo averla violentata l’ha massacrata di botte e l’ha abbandonata riversa sulla strada, augurandosi che qualcuno la investisse. Così è stato. Di Azka non si rammenta più nessuno.
Come nessuno si è ricordato che a Novellara – dove Saman ha incontrato la morte che probabilmente ha gli occhi di suo zio Danish Hasnain, esecutore materiale di una sentenza decretata da tutta la famiglia – le bande di pachistani si sono prese a sprangate: Shahbaz Akhtar l’hanno ammazzato a colpi di ascia ai tavoli del bar del paese. Un regolamento di conti tra il gruppo dei luzzaresi e quello di Novellara per il controllo delle terre. E forse la famiglia Saman è arrivata in Italia portata da questi trafficanti di braccia. Il caporalato, il business dell’eroina, il controllo delle terre, il piccolo commercio urbano in concorrenza violenta con i cinesi e quello più grande dei permessi di soggiorno falsi è in mano alla mafia pachistana, però nessuno ha il coraggio di dirlo.
Eppure il 30 gennaio 2018 a Napoli la Polizia ha messo le mani su Akhtar Jahamgir, il capo mandamento del Sud. Il suo compito era quello di produrre permessi di soggiorno taroccati per far arrivare e sfruttare o come spacciatori o come braccianti i fratelli, i padri delle ragazze che non devono occidentalizzarsi per evitare infiltrazioni al riparo della religione. Troppo scomodo per tutti: per l’islam, per chi predica l’integrazione e l’accoglienza, per chi versa due lacrime e vola alto là dove si discetta attorno al Corano.
La realtà invece è fatta di sfruttamento, di droga e di sangue. È il sangue di Hina Saleem massacrata a Brescia; di Shahnaz Begum ammazzata dal marito, e della figlia Nosheen Ahmad Butt (19 anni), ferita a colpi di pietra a Novi, nel Modenese; e ancora di Jamila, un’altra ragazza uccisa a Brescia.
La scia è lunghissima, e c’è anche il sangue di Adnan Siddique, liquidato a coltellate dai sicari della mafia pachistana un anno fa, a Caltanissetta: aveva convinto a ribellarsi i braccianti schiavizzati dai connazionali. Non c’è nessuna fatwa contro la tratta dei migranti, non c’è nessuna moschea che si è ribellata ai trafficanti di eroina e nessuno si è occupato della mafia della mezzaluna. Farlo mette in crisi la retorica dell’accoglienza.
Torniamo all’ambiente della povera Azka Riaz, uccisa su una strada tra Morrovalle e Macerata. Perché proprio qui, nella provincia marchigiana, c’è un punto nevralgico dell’operatività di questa organizzazione criminale. Solo una decina di giorni fa, le forze dell’ordine hanno fatto l’ultima operazione per contenerla. La Guardia di finanza di Ancona, in un’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia, ha arrestato 30 pachistani ai quali sono stati sequestrati 3 milioni di euro e 45 chili di eroina. E sulla costa adriatica il luogo rilevante per lo spaccio è l’Hotel House, il grattacielo multietnico dove abitano duemila persone di 33 etnie diverse e che costituisce una vera Mecca della droga. Il 17 dicembre scorso, sempre nei pressi dell’edificio, hanno arrestato altri 24 pachistani e 5 afghani per un traffico internazionale di eroina.
Nell’intera regione, e soprattutto nella piccola Macerata, tra il 2015 e il 2017 sono arrivati mille pachistani grazie ai progetti Sprar. Avevano in tasca istruzioni precise. Lo rivelarono loro stessi durante una protesta: «Ci hanno spedito in Italia dicendoci: arriva a Macerata, ti presenti in questura e in qualche giorno ti danno i documenti e anche i soldi. Ma non è vero…». In quel periodo, nel capoluogo, i progetti di accoglienza erano gestiti quasi tutti dal Gus (Gruppo umana solidarietà, arrivato ad avere quasi 40 milioni di euro di fatturato con l’assistenza ai migranti praticamente in tutta Italia) allora cordinato da Giovanni Lattanzi, che è stato responsabile nazionale per l’immigrazione del Pd durante la segreteria di Matteo Renzi fino al febbraio 2017.
Probabilmente è difficile prendere di petto la questione pachistana. Eppure di argomenti ce ne sono. Questi immigrati fanno caporalato in tutta Italia. Solo i casi più recenti: sempre a Macerata avevano ridotto in schiavitù 72 connazionali, altri 70 ad Ascoli; a Senigallia ne tenevano segregati 32 in un sottotetto; a Cessalto, nel Trevigiano, c’era una rete di sfruttamento di 40 braccianti; così a Mondragone, in Sicilia, oltre 100 a Caltanissetta e Butera.
Gli «schiavi» affluiscono da Lahore, da Karachi, dove la mafia pachistana fa morire di sete le persone, da Quetta, da Taxila; da Islamabad portano le prostitute. Arrivano con i barconi, i loro permessi invece seguono la stessa rotta della droga: quella balcanica. Eroina e braccia sono traffici paralleli e per i migranti la mafia pratica queste tariffe: un visto per lavoro stagionale costa 12 mila euro, una richiesta di sanatoria falsa sui 5 mila, un contatto per un progetto Sprar – che ora è stato ribattezzato Siproimi – circa 3 mila euro. Spese di viaggio escluse! E l’eroina? C’è un accordo: i pachistani la importano, i nigeriani la spacciano, la mafia italiana incassa il pizzo.
I «manovali» arrivano anche loro dal Paese asiatico e, ovviamente, in modo clandestino: vanno a raccogliere i pomodori per 3 euro l’ora – con turni di 12 ore – dovendo restituire al caporale due terzi della paga per vitto e alloggio in case fatiscenti; oppure, semplicemente spacciano. Perché, lo scrive lo stesso ministero dell’Interno in un rapporto che ben conosce la ministra Luciana Lamorgese, il tasso di occupazione dei pachistani è il più basso in assoluto tra i migranti presenti in Italia. Tra i giovani, quelli che non sono impegnati in alcuna attività toccano il 41 per cento; le ragazze tra i 14 e i 29 anni che non hanno un lavoro né studiano sono il 54,6 per cento; eppure un numero elevato di semianalfabeti si iscrivono a tanti corsi. Per imparare un mestiere? Ne dubita anche il ministero che, burocraticamente, annota: «Con ogni probabilità il numero elevato di tirocini è dovuto alla forte rappresentazione della comunità tra i richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria i cui percorsi di integrazione socio-lavorativa prevedono spesso l’utilizzo di strumenti quali i tirocini».
Riguardo ai progetti Sprar-Siproimi, che tanto piacciono alle onlus, viene ancora da chiedersi come mai i pachistani che lavorano poco, non studiano per nulla e non si integrano siano al quarto posto tra gli extracomunitari presenti in Italia per volume di rimesse di denaro. Forse lo sanno i papaveri di Saman.
