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Hacker antimafia

Hacker antimafia

Per contrastare realtà criminali sempre più veloci e flessibili occorrono «strumenti» aggiornati: come i pirati della Rete, che potrebbero essere impiegati nel web per una lotta più efficace ai business illegali. Ci sono però questioni organizzative ed etiche su cui il dibattito è sì necessario, ma soprattutto è diventato urgente.


La lotta al crimine si sta spostando nel cyberspazio. È lungo le fibre ottiche delle connessioni veloci che buoni e cattivi regoleranno i conti in futuro. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, è tra i primi a immaginare lo scenario. «Mentre la politica discute delle intercettazioni, le mafie sono già in grado di assoldare degli hacker e costruirsi nuovi modi di comunicazione» ha detto nel corso di un incontro pubblico. «Usano per sei mesi telefoni per parlare in chiaro da una parte all’altra dell’oceano e noi non riusciamo a bucare nessuno di questi sistemi». La soluzione? «Dobbiamo smetterla di arruolare nei servizi segreti solo il poliziotto o il maresciallo, bisogna assumere hacker altrimenti non riusciremo a essere competitivi con le migliori polizie del mondo».

L’idea del magistrato sembra ricalcare il modello americano dove l’Fbi ha il potere di mettere sotto contratto, come collaboratori o consulenti, ex delinquenti (gli «informatori cooperanti») per battere piste investigative altrimenti precluse. Il tema, al di là delle norme, è soprattutto di risorse finanziarie in campo. Secondo Confesercenti, le quattro mafie fatturano ogni anno 200 miliardi di euro. Ma se ci si sposta sul web i danni degli attacchi cyber al sistema economico ammontano a 3 mila miliardi, una volta e mezzo il Pil nazionale. Cifre assolutamente incomparabili con qualsiasi budget delle forze dell’ordine. Una sfida persa in partenza? Per Adolfo Grauso, già direttore dell’Aisi (servizi segreti interni) di Campania e Basilicata ed ex capocentro della Direzione investigativa antimafia di Napoli, l’«importante è il fine» anche se, aggiunge, «dare in “appalto” a soggetti esterni incarichi così sensibili non è certo raccomandabile. Al più, possiamo immaginare di inquadrarli in organismi interni alle nostre agenzie ma sempre con specifiche limitazioni operative». In linea il pm napoletano Giovanni Corona, autore di importanti inchieste sulla camorra dell’area nord del capoluogo campano: «Ci sono tanti carabinieri e poliziotti capaci, non è necessario reclutare degli hacker. Al massimo si può far diventare un hacker un servitore dello Stato».

Di diverso avviso l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. «Più che assoldare sarebbe meglio formare esperti informatici da destinare poi a compiti di lotta al crimine. Un hacker è un individuo che commette reati, difficile rendere compatibile il suo profilo con i paletti ordinamentali del nostro Paese». E aggiunge: «Su una cosa Gratteri ha ragione: i servizi segreti si sono appiattiti sulle forze dell’ordine. Servirebbero scuole di intelligence e centri di specializzazione».

Lo storico e politologo Aldo Giannuli ragiona su due piani. «Nel merito, il procuratore di Catanzaro afferma il giusto. La mafia, che non è affatto distante dal mondo dell’intelligence, tant’è che ci sono reciproci scambi di favori soprattutto online, si sta dotando di esperti e di sistemi che la proteggono dalle indagini. E questo accade mentre lo Stato discute». Però, aggiunge Giannuli, «c’è il rischio di reclutare un hacker di area mafiosa… Sul metodo però sono contrario: non sono cose che dovrebbe dire un magistrato, sono temi di carattere politico». Il giudice Luigi Bobbio, ex pm della Dda partenopea ed ex senatore, delinea il quadro normativo: «Sfugge a Gratteri che l’hackeraggio “attivo”, l’intrusione nei sistemi altrui, è un reato e gli hacker arruolati dai servizi internazionali svolgono per lo più un hackeraggio difensivo» nell’ambito di «strutture di spionaggio prive della qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria».

Dunque, secondo Bobbio, il procuratore di Catanzaro «pare far confusione tra investigazioni giudiziarie italiane e poteri e ruolo dei nostri servizi segreti», con questi ultimi che possono «fare hackeraggio intrusivo e difensivo ma non probatorio. Gli hacker, a legislazione vigente, possono essere arruolati nei servizi ma non nelle fila della polizia giudiziaria» conclude Bobbio «certo non potrebbero violare sistemi operativi altrui per raccogliere prove, almeno finché manca una legge che lo legittimi». Difficile però che il tema rientri nell’agenda parlamentare. L’Italia sconta ancora un approccio di eccessiva cautela, forse addirittura di sospetto, sulle regole d’ingaggio dei nostri 007. Una certa narrazione sul tema, che risale agli anni Settanta, e l’opera di demolizione dell’intelligence anche da parte della politica ne hanno di fatto congelato poteri, funzioni e prerogative operative. Col paradosso che un mafioso fa meno paura di un agente segreto.

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