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La grande guerra dei microchip

La grande guerra dei microchip

Il predominio tra le due superpotenze si gioca su queste tecnologie. E Washington ora mette alla strette Pechino.


C’è qualcosa che deve farci ancora più paura della guerra in Ucraina. Perché la vera trincea tra l’Occidente libero e le autocrazie orientali, Russia e Cina, non corre in Crimea o nel Donbass. Il vero scontro globale, il conflitto forse più cruciale della storia moderna, si prepara altrove: su minuscoli wafer di silicio, su circuiti elettrici ormai sottili come frammenti di Dna, e su una manciata di colossi industriali che li producono in giro per il mondo. La Grande guerra dei microchip covava da tempo, ma ora si sta accendendo in tutta la sua immensa capacità distruttiva. E le nuove, minacciose esercitazioni militari cinesi di Pasqua attorno a Taiwan, primo produttore globale dei semiconduttori, lo dimostrano con inquietante evidenza.

Con Donald Trump gli americani avevano già compreso che, se davvero non vogliono essere travolti dall’impetuosa avanzata economico-militare della Cina, hanno una sola arma, e cioè «affamare» la sua poderosa industria hi-tech. Oggi Pechino dipende quasi totalmente dai miliardi di circuiti integrati che importa soprattutto da Taiwan, Corea del Sud e Giappone – tre Paesi che controllano quasi il 90 per cento del mercato globale, arrivato a 613 miliardi di dollari nel 2022 – e riesce a fabbricarne in casa appena il 6 per cento. Ma senza una piena padronanza di tecnologia e produzione dei minuscoli filamenti di silicio che fanno muovere il mondo, tutte le ambizioni di supremazia economica e militare di Xi Jinping sono destinate a fermarsi e ad arretrare, un po’ come era accaduto agli invasori mongoli davanti alla Grande muraglia. Ciò diventa ancor più vero oggi, mentre l’intelligenza artificiale sta rivoluzionando logiche e sistemi di guerra.

L’America convive da tempo con lo strapotere economico cinese. Ma la recente dilatazione della minaccia bellica, a Washington, viene vissuta con crescente inquietudine. La spesa militare di Pechino, del resto, è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni, e nel 2023 aumenterà ancora del 7,2 per cento. Dal 2020 gli annunci di una «guerra inevitabile» con gli Stati Uniti compaiono quasi nevroticamente sul Global Times, l’organo in lingua inglese del Partito comunista cinese. Lo stesso Xi Jinping, negli ultimi discorsi pubblici, s’è messo a parlare dell’alta probabilità di un conflitto, e incita i suoi generali: «Preparatevi a combattere». Per questo l’amministrazione americana ha deciso di colpire duro proprio sui microchip, il tallone d’Achille cinese. Perché è vero che nel gennaio 2021 Xi aveva lanciato un piano con l’ambizioso obiettivo di raddoppiarne la produzione entro il 2025. Ma al momento, per consolidarsi nei semiconduttori con i più elevati standard – quelli che faranno funzionare i nuovi sistemi d’arma, come i missili ipersonici e i futuribili jet di sesta generazione che tanto preoccupano la Nato – alla Cina di anni potrebbero servirne ancora cinque o sei.

Così Joe Biden, con la piena adesione dei repubblicani, ha messo in campo una serie di mosse strategiche: mosse cruciali, di cui in Italia s’è parlato poco, ma che rischiano di avere effetti ben più gravi e destabilizzanti del conflitto in Ucraina. La dichiarazione ufficiale di guerra dell’amministrazione americana porta la data del 9 agosto 2022, quando ha varato il «Chip and science act» e ha messo sul tavolo 52 miliardi di dollari in sussidi per riportare la produzione dei microchip negli Stati Uniti. Quel giorno, Biden ha ricordato che «l’America ha inventato i semiconduttori, ma poi ha lasciato che la produzione espatriasse». Washington ha ottenuto l’immediata disponibilità d’investimenti privati per 280 miliardi, soprattutto da Taiwan e Corea del Sud. La comunità internazionale ha letto la mossa come l’ennesima fiammata autarchica Usa.

Il suo cuore, però, sta nella clausola che impone a chiunque acceda ai sussidi di rinunciare – per dieci anni – a produrre un solo chip nella Repubblica popolare. Due mesi dopo, la Casa Bianca ha stabilito restrizioni ancor più dure alla vendita in Cina dei semiconduttori di ultima generazione e dei macchinari per la loro produzione. Ha vietato a cittadini americani e perfino ai residenti negli Stati Uniti di lavorare per l’hi-tech di Pechino.

Per quanto draconiane, però, leggi e divieti sono soltanto un’appendice alla mossa più aggressiva di Biden, e cioè la lunga, pressante trattativa per il patto «Chip 4», con cui per un anno il presidente americano ha cercato di coinvolgere nell’operazione «embargo tecnologico» anche Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Un po’ per i tradizionali legami con gli Stati Uniti, e molto per paura della crescente spesa militare cinese, Tokyo e Taipei hanno aderito al patto lo scorso autunno. Seoul, invece, per un po’ è stata frenata dalla resistenza dei suoi colossi, soprattutto Samsung e Hynix. Del resto, sei decimi della produzione sudcoreana di circuiti integrati vengono esportati in Cina, un valore che nel 2022 è arrivato a 128 miliardi di dollari. A metà marzo, però, anche la Corea del Sud ha finito per allinearsi alla strategia americana. La mossa più disastrosa per la Cina, comunque, è venuta all’inizio di quello stesso mese, quando nell’embargo è entrata anche l’Olanda, che con il suo gigante Asml ha il monopolio mondiale nei macchinari per la litografia ultravioletta, fondamentale per stampare i microchip a più alte prestazioni. Senza le tecnologie di Asml, si stima che la principale fabbrica cinese del settore, la Semiconductor manufacturing international corporation di Shanghai, potrà realizzare microchip da 28 nanometri (miliardesimi di metro) solo verso il 2030, quando saranno obsoleti. Per fare un confronto con gli standard attuali, la Taiwan semiconductor manufacturing company, primo produttore al mondo, riesce a produrne da 3 o 4 nanometri. Mentre la sudcoreana Samsung stima di sfornarne da 1,4 nanometri entro il 2025. Di fronte all’accerchiamento tecnologico, la Cina reagisce com’era prevedibile: malissimo. Pechino ha annunciato un piano da 143 miliardi di dollari, il triplo delle risorse messe in campo dal «Chip and science act», per rilanciare ricerca e produzione nei microchip. Prima di Pasqua il ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, ha sparato a zero contro la «strategia americana, che vuole contenere e sopprimere tutte le nostre legittime aspirazioni». Poi ha aggiunto una frase di ghiaccio: «Questo è un gioco a somma zero, in cui uno muore e uno vive».

Xi Jinping ha preferito il fuoco. Ha accusato Washington di «avere politicizzato questioni economiche, commerciali e tecnologiche solo per salvaguardare la sua egemonia». Poi ha detto che la riunificazione con Taiwan «è inevitabile». E mentre le sue navi da guerra iniziavano a esercitarsi all’invasione dell’isola dei microchip, è riuscito a spingere il presidente francese Emmanuel Macron a dividere il campo occidentale e a dichiarare che «l’Europa deve evitare di essere coinvolta in crisi che le impediscono di costruire la sua autonomia strategica».

E ora che cosa accadrà? Alberto Forchielli, imprenditore e grande esperto di Asia, è convinto che l’embargo tecnologico americano sia l’unica strada che resta all’Occidente per bloccare le ambizioni del dittatore cinese: «Xi si era illuso di poter sconvolgere l’ordine mondiale» dice «ma la realtà presenterà un conto salato alla sua vanagloria». Speriamo. n

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