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Missione: rendere l’Italia più rinnovabile

Missione: rendere l’Italia più rinnovabile

Il gruppo danese European Energy, presente in 16 Stati, punta sul nostro Paese, dove in Puglia ha già attivato il parco fotovoltaico più grande della Penisola. «Siete uno dei mercati dove abbiamo intenzione di investire maggiormente nei prossimi tre anni» dice il fondatore Knud Erik Andersen a Panorama.


Per raccontare la sua azienda sceglie l’understatement, che poi è un riflesso del classico pudore nordico: «Prendiamo due risorse naturali come il vento e il sole, su cui non esiste alcun monopolio, per trasformarle in energia pulita. Riduciamo l’inquinamento del Paese che ci ospita, facciamo del nostro meglio, con umiltà». Knud Erik Andersen, alla prima intervista con un giornale italiano, collegato in videochiamata con Panorama da Søborg, a pochi chilometri da Copenaghen, avrebbe titolo di usare toni meno sobri. È direttore generale e co-fondatore di European Energy, società presente in 16 Paesi, inclusi Stati Uniti e Australia, che ne hanno allargato il raggio oltre il Vecchio continente richiamato nel nome.

In Puglia, un anno esatto fa, ha inaugurato il parco fotovoltaico più grande in assoluto di tutto lo Stivale: 103 megawatt, un record nazionale ancora imbattuto. Per potenza, è una frazione di quelli in via di sviluppo da parte dell’azienda danese nella Penisola. E sembra soltanto l’inizio: «L’Italia» anticipa Andersen «rappresenta uno dei tre mercati in cui abbiamo intenzione di investire di più nei prossimi anni. Le nostre aspettative sono alte, impiegheremo tanto personale sul posto».

Di che numeri parliamo?

Posso fare un esempio relativo a un’opera che abbiamo appena completato in Brasile. Per ognuna, per i lavori, abbiamo assunto oltre 100 persone della zona, più una decina abbondante per le operazioni, che si protraggono di regola per un arco di 30 anni. Inoltre, paghiamo le tasse locali, ci appoggiamo a partner, imprese e banche del territorio, diventiamo elementi e sostegni dell’economia di un’area.

In cosa è peculiare il vostro approccio?

Nel fare tutto dall’inizio alla fine, dal progetto al finanziamento, dalla costruzione alla connessione alla rete, fino alla manutenzione dei siti. Così si riesce a seguire per intero, da vicino, la qualità.

Non capita che siate percepiti come dei colonizzatori?

Siamo internazionali, il 50 per cento dei nostri dipendenti arriva da più di 20 Paesi. In molti abbiamo già aperto uffici e continuiamo a farlo con un buon ritmo. Da quando ci sediamo a un tavolo con un contadino davanti a una tazza di caffè, capiamo come lavorare assieme sul suo terreno e mettiamo le basi di un rapporto di lungo periodo, la conversazione avviene nella sua lingua. Il tedesco in Germania, l’italiano in Italia e così via. L’Europa è una somma di individualità, cerchiamo di comprenderle, rispettarle, adattarci. L’obiettivo più ambizioso è però comune, condiviso.

L’Europa mira a essere «carbon neutral», a bilanciare del tutto le sue emissioni nocive entro il 2050. A che punto siamo realmente?

Alla consapevolezza che i progetti fondati su risorse alternative funzionano pure senza una dipendenza diretta dai sussidi. Sono guidati dal mercato. La loro scala è aumentata, la tecnologia migliora, i costi sono scesi. Le energie pulite sono anche le fonti più efficienti. E andrà meglio con il trascorrere del tempo.

Al di là delle condizioni strutturali, l’atteggiamento dei cittadini si è allineato?

Quando abbiamo cominciato, nel 2004, il cambiamento climatico non si guadagnava i titoli dei giornali. La priorità era raggiungere un’indipendenza produttiva dalla Russia o dal Medio Oriente. Oggi il pubblico ha coscienza della situazione. Stiamo passando dal movimento Nimby (Not in my back yard, non nel mio cortile, ndr), al Pimby (Please in my back yard, prego nel mio cortile, ndr): gli impianti solari ed eolici sono più che benvenuti.

Cosa manca per il definitivo salto di qualità?

La pandemia ha dimostrato che, con la giusta volontà, si può agire rapidamente e con efficacia. Lo stesso senso d’urgenza dovrebbe essere applicato a un’altra crisi, quella climatica.

Gli ostacoli principali che frenano il passaggio dalla teoria alla pratica?

Ci sono tante variabili in gioco, molte prospettive coinvolte. Per esempio, quando solleviamo una turbina, dobbiamo valutare l’effetto sulla popolazione degli uccelli. È un fattore delle angolature molteplici da considerare, che generano due o tre turni di controlli e rallentano i processi. Per un permesso, possono volerci anni.

Vale pure per l’Italia?

L’Italia ha una moltitudine di regole puntuali e rigorose per aspetti che, altrove, non sono normati. Il vostro Paese privilegia la specificità, in parallelo dimostra pragmatismo. Alla fine, una soluzione la si riesce a trovare.

Suona come un punto di forza. Un altro?

Ha un’infrastruttura davvero buona, riusciamo a connetterci alla rete pubblica in maniera ottimale. In altre nazioni non succede. E poi c’è tantissimo sole. Il sole è una risorsa grandiosa, pulita e gratuita. Non bisognerebbe dimenticarlo mai.

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