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Le spose dell’Isis

Le spose dell’Isis

Il ruolo delle donne nella Jiihad risulta sempre più centrale, come racconta un nuovo saggio. E spesso a farsi saltare in aria sono le bambine, percepite come «innocue».


Violet Kemunto si era laureata nel 2015 in giornalismo all’Università di Kakamega, Kenya occidentale. Poi si è innamorata del terrorista somalo Salim Gichunge. Sul profilo WhatsApp si presentava come sposa della guerra santa, anche se continuava a intrecciarsi i capelli, a usare un rossetto acceso ed esibiva un piercing al naso. Al Shabaab, la costola jihadista somala, l’ha addestrata a diventare una spia nell’Amniyat, la cellula di sicurezza interna del gruppo armato. Violet ha aiutato il marito raccogliendo informazioni sul complesso alberghiero di Nairobi attaccato il 15 gennaio 2019 (22 civili uccisi).

Violet è uno degli esempi emblematici del jihadismo femminile in Africa, raccontati nell’agile pubblicazione dal ricercatore Marco Cochi, così come le 244 kamikaze di Boko Haram o Samantha Louise Lewthwaite, detta la «vedova bianca», la terrorista inglese ricercata numero uno al mondo (Netflix le ha persino dedicato una docuserie).

«Il fenomeno non è circoscritto al continente africano» riflette l’analista con Panorama. «Quasi il 10% dei circa 5.000 miliziani islamisti europei che si sono uniti all’Isis erano donne». Dopo la caduta del Califfato in Siria e Iraq, le vere bombe a orologeria sono i campi nel Nord Est della Siria, dove i curdi hanno internato 70.000 mogli, vedove e figli dell’Isis. Il nocciolo duro delle donne terroriste detta legge sulle altre, come se fosse ancora vivo il Califfato con omicidi e intimidazioni.

Alice Brignoli, soprannominata la «mamma dell’Isis», è stata riportata in Italia con i tre figli piccoli da uno di questi campi, Al Hol, con un’operazione del Ros dei carabinieri e dei servizi segreti. L’11 maggio il Tribunale di Milano l’ha condannata a quattro anni di carcere per terrorismo internazionale, pena ridotta di un terzo grazie al rito abbreviato. Nome islamico Aisha, aveva aderito allo Stato islamico nel 2015 partendo per la Siria da Bulciago, provincia di Lecco, assieme al marito poi deceduto in una prigione curda. Prima della sentenza, in un video collegamento dal carcere di Piacenza, si è «pentita» come gran parte delle jihadiste italiane catturate: «Non sono più la donna che ero… E non rifarei ciò che ho fatto».

In Africa gli adepti nigeriani del Califfato usano le donne per gli attacchi suicidi. «Sono gli agenti operativi ideali poiché possono penetrare agevolmente i checkpoint delle forze di sicurezza. Le larghe e modeste vesti tradizionali che indossano possono nascondere facilmente un giubbotto o una cintura imbottita di esplosivo» spiega Cochi, che fa parte dell’Istituto di analisi della Difesa. I numeri sono impressionanti: da aprile 2011 a giugno 2017, Boko Haram ha messo a segno 434 attacchi kamikaze: 244 sono stati eseguiti da donne. Talvolta le vittime sacrificali sono bambine «percepite come innocue e innocenti».

L’80% dei minori utilizzati negli attacchi suicidi dal gruppo nigeriano sono ragazzine. Le kamikaze sono pure «vedove dei membri di Boko Haram» che si fanno saltare in aria per vendicare la morte dei loro mariti e sostenere la causa del gruppo, evidenzia la ricerca. Il ruolo delle donne è significativo anche nel gruppo jihadista somalo Al-Shabaab che le utilizza come spie, addette al reclutamento, per portare ordini o far arrivare le armi per gli attentati.

Nella strage al complesso alberghiero DusitD2 di Nairobi del 15 gennaio 2019, per esempio, erano coinvolte due donne. Oltre a Kemunto, moglie del capo cellula morto nell’attacco, c’era Mariam Abdi, che ha aiutato nel reperire le armi usate nell’assalto.
In un altro attentato, tre terroriste di al Shabaab hanno fatto irruzione in una stazione di polizia di Mombasa armate di coltelli. La mandante era Haniya Sagar, vedova dell’imam della moschea di Masjid Musa, a Mombasa, che inneggiava alla guerra santa. La donna è diventata un esponente di rilievo di Al-Shabaab.

I terroristi somali hanno anche schiavizzato sessualmente le donne, ma nonostante gli abusi il «fascino» dei mujaheddin attrae pure ragazze benestanti che studiano all’università. Un gruppetto di quattro studentesse di Medicina, Farmacia compresa una laureata in Economia e commercio sono state fermate a Elwak, città di confine in Kenya, mentre cercavano di entrare in Somalia per arruolarsi nelle file di Al-Shabaab.

«La figura che ha indubbiamente ispirato molte giovani somale e keniane a unirsi ai terroristi» aggiunge Cochi «è la vedova bianca», la convertita britannica Samantha Louise Lewthwaite. Figlia di un ex soldato inglese, abbraccia l’islam a 17 anni e sposa Germaine Maurice Lindsay, uno dei quattro kamikaze degli attacchi multipli a Londra del 7 luglio 2005. In fuga in Africa, trova altri due mariti jihadisti e ha quattro figli. In Somalia il suo compito è reclutare e addestrare gli aspiranti martiri dell’unità kamikaze Istishhadyin.

Sherafiya, il suo nome islamico, è ricercata anche per l’attentato del 24 giugno 2012 quando in un bar di Mombasa «dove si trasmetteva la partita tra Italia e Inghilterra valida per i quarti di finale del campionato europeo» scrive Cochi «rimasero uccise tre persone e 25 furono ferite dalle schegge delle granate usate per sferrare l’attacco». L’MI-6, l’intelligence britannica, sospetta che la «vedova bianca» abbia trovato rifugio nello Yemen, feudo di Al Qaeda collegato ai terroristi somali, «dove avrebbe arruolato una trentina di attentatori suicidi».

Nel nord-est della Siria, il Califfato è stato sconfitto, ma rimangono ancora attive cellule dell’Isis. I campi di El Hol e Roj sono il possibile serbatoio dei terroristi. Dopo la caduta di Raqqa e la liberazione da parte dei curdi degli ultimi villaggi in mano alle forze jihadiste si sono arrese 70.000 persone, tra donne e bambini.

«L’Isis è impegnato nell’indottrinamento e nel reclutamento nei campi. L’obiettivo è formare la nuova generazione di combattenti» conferma James F. Jeffrey, ex inviato speciale americano della coalizione internazionale contro il terrorismo. «Molte vedove dell’Isis e mogli che hanno i mariti nelle prigioni curde sono ancora fedeli alla guerra santa. All’interno dei campi mantengono il potere con lo stile del Califfato attraverso la violenza e l’intimidazione» afferma Jeffrey.

In una tendopoli era comparsa anche l’italiana Sonia Khediri, accusata di terrorismo dalla Procura di Venezia. E la veneta di origine marocchina Meriem Rehaily, già condannata a 4 anni di carcere per avere aderito allo Stato islamico. «L’hanno plagiata. Si è pentita e vuole tornare a casa. Ha avuto dei figli che se crescono nel campo di Roj potrebbero venire plagiati pure loro» racconta dal Veneto il padre Redouan Rehaily. E aggiunge: «Implora di essere salvata. La Croce rossa l’ha incontrata e ci ha consegnato le sue lettere, ma è tutto fermo». L’obiettivo è tornare in Italia, come Alice Brignoli, per scontare la pena.

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