La pandemia ha disastrato i conti e il Papa decide severe economie sugli stipendi del clero. Ma, in parallelo, riaffiorano scandali e veleni.
Forse è irriverente, ma è lì che casca l’Angelus. Anche Papa Francesco ha dovuto prendere atto che: «l’anno scorso eravamo più scioccati, quest’anno siamo più provati e la crisi economica è diventata pesante». Lo ha constatato urbi et orbi la domenica della Palme, pensava anche ai conti di casa sua in profondissimo rosso: mancano almeno cento milioni, ma il buco potrebbe essere molto più preoccupante. Ufficialmente il disavanzo del Vaticano è di 49,7 milioni (era 11 nel 2019), ma sono già stati consolidati 30 milioni dell’Obolo di San Pietro (le offerte al Papa), i conti veri sarebbero molto peggiori e soprattutto le proiezioni sull’anno corrente fanno spavento. Mancano del tutto le elemosine. Si parla di rischio default, il Vaticano ha riserve per tre o quattro anni prima di svendere pezzi del suo immenso patrimonio.
Il virus cinese ha quasi azzerato gli incassi dei Musei vaticani, è drastica la diminuzione delle offerte (l’obolo di San Pietro si è quasi dimezzato, da 59 a 30 milioni, le elemosine sono calate del 30 per cento), pesano le speculazioni azzardate e la progressiva trasformazione del Vaticano in una Onlus con 5 mila persone da stipendiare solo a Roma.
Così il Papa che considera il denaro «un tiranno» diventa di colpo occhiuto nella contabilità. Con la sua rivoluzione della finanza – senza riabilitare però il vero artefice, il cardinale George Pell – ha dato solo una mano di bianco, pensando che basti circondarsi di fedelissimi per illuminare le zone d’ombra; che sono però quelle di prima, se non peggiori.
Un esempio? Francesco ha tolto alla Segreteria di Stato i fondi propri (con cui assisteva le nunziature apostoliche); ma è più una punizione del cardinal Pietro Parolin, al centro dell’affare dell’edificio londinese di Sloane Avenue per cui è stato de-cardinalizzato Giovanni Angelo Becciu (forse incolpevole), che non una vera razionalizzazione dei conti.
Bergoglio dà sempre più l’impressione di agire d’impulso. Come nel caso del «pesce d’aprile» che ha fatto ai suoi sudditi: il drastico taglio degli stipendi scattato all’inizio del mese. Con motu proprio del 24 marzo, Bergoglio ha tolto il 10 per cento della busta paga dei cardinali (500 euro in meno al mese). Per i capi dicastero la sforbiciata è dell’8 per cento (ci rimettono 300 euro), per i sacerdoti del 3 (con 50 euro se la cavano). Vengono bloccati gli scatti di anzianità e tutti i premi al personale laico. Obiettivo: non sacrificare posti di lavoro.
Oddio: Jorge Mario Bergoglio di licenziamenti in tronco – e senza apparente motivo – ha costellato il suo pontificato. Tutti tremano perché in Vaticano c’è sì la provvidenza, ma non la cassa integrazione. Il terrore finanziario corre per le sacre stanze e non solo a Roma: nel mirino ci sono i conventi. L’ordine impartito alla Congregazione per gli istituti di vita consacrata, guidata dal vescovo José Rodriguez Carballo – uno dei «latinos» di stretta osservanza bergogliana già invischiato in uno scandalo immobiliare con i frati minori francescani – è fare quanta più cassa possibile vendendo le strutture, meglio se di pregio artistico.
Riemerge così il caso più doloroso, anche se si è fatto di tutto per sopirlo: quello di Eugenio Hasler, figlio di un maggiore delle Guardie svizzere, nato e cresciuto in Vaticano. È stato il segretario di monsignor Carlo Maria Viganò, poi è passato alle dipendenze di monsignor Fernando Vérgez Alzaga, sempre al Governatorato. Il 28 marzo del 2017 è stato cacciato senza un perché: a 30 anni messo sul lastrico dal pontefice che 15 giorni prima aveva gridato al mondo: «Chi toglie il lavoro a un uomo fa un peccato gravissimo».
Il licenziamento inspiegabile di Hasler oggi è una nemesi: Bergoglio deve prendere atto che la macchina da soldi dei Musei vaticani, governata in esclusiva da monsignor Paolo Niccolini, il prelato che non gradiva il controllo di Hasler sui conti, è inceppata. Il virus cinese ha fiaccato gli incassi dell’85 per cento e mancano 100 milioni. Ma mentre Niccolini non è mai stato messo in discussione ora il Papa ha nel mirino il Governatore in prima persona: il cardinale Giuseppe Bertello.
Ci sono però molti altri conti che devono essere rivisti. Per esempio quelli degli appalti in capo a monsignor Rafael Garcia de la Serrana Villalobos, fidatissimo dell’Opus Dei, quelli del Fas, il pingue fondo sanità gestito da monsignor Luigi Mistò, sodale di un’altra tonaca eccellente: Alberto Perlasca finito nei guai per lo scandalo del palazzo londinese. Perlasca è il pentito che ha scaricato molte colpe sul decardinalizzato Becciu, ma l’inchiesta si sta sfarinando e pare sopita.
Proprio il caso Sloane Avenue apre uno spaccato su come il Vaticano gestisce i soldi, con il Papa impegnato ad allontanare da sé qualsiasi responsabilità. Per «scudarsi» ha accentrato tutto sui suoi fedelissimi: per primo il gesuita Juan AntonioGuerrero Alves, prefetto della Segreteria per l’economia, amicissimo del direttore della rivista Civiltà Cattolica Antonio Spadaro, suggeritore sulle cose del mondo – dalle coppie gay al feeling con Greta Thunberg – di Bergoglio. Alves ha come braccio destro il suo compagno di scuola Maximino Caballero Ledo, uomo dell’Opus Dei.
I soldi del Vaticano sono in mano a un triangolo saldissimo: gesuiti, Opus Dei e Rehinard Marx, capo del consiglio per l’Economia, potentissimo reggitore della chiesa tedesca che ha fremiti scismatici, è in crisi di vocazioni e di fedeli, ma è ancora robusta per il suo bilancio forzato (i tedeschi pagano una tassa per potersi dire cattolici) che però non dà un soldo a Roma.
Nonostante questa cortina di ferro, i bilanci continuano a dare pena. A partire proprio dall’affare di Londra. Emerge con sempre maggiore chiarezza che Bergoglio sapeva. A partire dall’incontro con Gianluigi Torzi (il broker che ha fatto da mediatore nell’affare immobiliare ed è stato anche arrestato), avvenuto a Santa Marta il 26 dicembre 2018.
Il tribunale della capitale britannica, che ha dissequestrato i beni del finanziere bloccati dai magistrati vaticani, ha stabilito che Torzi non ha raggirato la Chiesa, ma anzi ha agito su preciso mandato. Agli atti del processo c’è una lettera del segretario di Stato, il cardinal Pietro Parolin. C’è scritto: «Anche alla luce delle spiegazioni fornite dal monsignor Perlasca e dal dottor Tirabassi (funzionario laico vaticano indagato, ndr), avendo avuto rassicurazioni sulla validità dell’operazione (che porterebbe vantaggi alla Santa Sede), sulla sua trasparenza e sull’assenza di rischi di reputazione (che, in effetti, supererebbero quelli legati alla gestione del Fondo GOF) sono favorevole alla conclusione del contratto. Grazie. Parolin». E le misteriose trame di Becciu? E la dama bianca del cardinale, la signora Cecilia Marogna, anche lei arrestata, rilasciata e per la quale il Vaticano non ha più chiesto l’estradizione?
In più, un resoconto dice che il Vaticano ha pagato 250 milioni ciò che ne vale almeno 260. E però il piatto della Santa sede piange, anche se Bergoglio tiene segreti i conti della Commissione affari riservati, dell’Elemosineria e di Propaganda fide. La relazione stesa da Caballero Ledo (il vice di Guerrero Alves) lascia pochi dubbi: si era stimato un aumento del disavanzo del 145 per cento, ma si sta palesando una severa riduzione delle fonti ordinarie di ricavo tra il 50 e l’80 per cento, con un aumento del deficit del 175 per cento. In otto anni di pontificato di Bergoglio lo stock di deficit sfiorerebbe il miliardo.
Il Vaticano ha deciso di non riscuotere gli affitti durante tutta la pandemia, riducendoli di due terzi. Lo ha spiegato monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Aspa, diventato il centro delle finanze vaticane. La Commissione per l’economia – riunita di nuovo d’urgenza il primo aprile – che il cardinale Marx potrebbe usare per acuire il suo già fortissimo potere di condizionamento su Francesco, ha chiesto la verità sugli investimenti a partire da Sloane Avenue. Guerrero Alves si è limitato a commentare: «La Santa Sede non funziona come un’azienda, non cerca profitti». Appunto. Così sui soldi in Curia è iniziata una nuova resa dei conti.