Nel pc dell turbolento figlio del presidente Usa sono nascoste le tracce di ambigui business internazionali, a cominciare dall’Ucraina. Hunter è da tempo sotto indagine per frode e riciclaggio. E l’inchiesta ora rischia di lambire lo Studio Ovale e le finanze del padre.
John Paul Mac Isaac ha dovuto abbassare le saracinesche del suo negozio di informatica in Delaware lo scorso novembre. E non per colpa del Covid o per carenza di lavoro. Ma perché è stato lui, nel dicembre 2019, a consegnare all’Fbi il laptop di proprietà di Hunter Biden, abbandonato da aprile. Fino a oggi la vita del turbolento figlio del presidente degli Stati Uniti non aveva subito grandi scosse – Hunter si è riciclato come pittore, con tele vendute a mecenati anonimi per migliaia di dollari, e ha scritto un’autobiografia di scarso successo intitolata Beautiful Things dove parla delle sue dipendenze da cocaina e sesso – ma la fortuna del «golden boy» potrebbe cambiare.
Da tempo sotto indagine federale per la corrispondenza finanziaria ritrovata nel suo pc, Biden jr. rischia di finire a processo con gravi imputazioni (frode, riciclaggio e violazione di attività di lobbing straniera) per le sue avventure imprenditoriali con losche compagnie internazionali. Nel computer «maledetto» si trovano tracce di affari globali multimilionari, con capitali provenienti da Mosca a Pechino fino al Messico, intrecciati quando suo padre era vicepresidente di Barack Obama.
Secondo indiscrezioni riportate nei giorni scorsi dal giornalista di Fox News Jesse Watters, il procuratore David Weiss del Delaware, lo Stato dove è nata e si è moltiplicata la fortuna dei Biden, starebbe indagando non solo le finanze del figlio ma anche quelle del presidente degli Stati Uniti. Non abbiamo trovato riscontro alla notizia, ma i principali media americani concordano nel definire l’inchiesta su Hunter «in fase crescente». Dal Delaware, l’indagine potrebbe piombare direttamente nello Studio Ovale.
Nel corso della recente udienza davanti al Gran giurì, un testimone è stato a lungo interrogato sui proventi di Hunter e sull’identità celata dietro al nomignolo «Big Guy». È stata analizzata una mail, inviata il 13 maggio 2017 da James Gilliar all’ex socio in affari del figlio del presidente americano, Tony Bobulinski, in cui è riportata la frase «10 held by H for the big guy?». Sottointeso, da dimostrare, è che il 10 per cento del capitale della joint venture creata con partner cinesi, come dichiarato da Bobulinsky nel 2020, sarebbe dovuto andare a H (Hunter) in favore di «Big Joe».
Sempre Bobulinsky, all’indomani del suo incontro in hotel con Biden senior, ricevette l’invito a «non menzionarlo mai come coinvolto, solo faccia a faccia. Io lo so, tu lo sai, ma loro sono paranoici» è il monito suggeritogli da Gilliar. Nonostante la Casa Bianca continui a respingere ogni accusa di legami in affari tra Biden padre e figlio, altre compromettenti prove spuntano dai file rinvenuti nel portatile: conti correnti promiscui, bollette (incluse quelle mensili per internet e telefonia) e fatture per lavori nella villa fronte lago di Joe Biden saldati da Hunter e da suoi soci in passato.
Oltre a finanziamenti richiesti, sempre per conto di Joe, da dipendenti dell’Amministrazione come l’ex capo del personale Ron Klein in una mail del 2012 inviata al figlio del presidente. Che in un sms a un famigliare si sfogava così: «È veramente dura. Ma non ti preoccupare, a differenza di papà io non ti chiederò di darmi metà del tuo stipendio».
Nell’aprile 2019, lo stesso mese in cui il secondogenito di Biden dimenticava il computer nel negozio in Delaware, Hunter si dimetteva dal suo incarico in Burisma. Secondo il suo legale George Mesires, per non danneggiare la corsa presidenziale del padre. Solo per sedere nel consiglio della conglomerata dell’energia di proprietà dell’oligarca ucraino Mykola Zlochevsky, Hunter ha intascato circa un milione di dollari l’anno.
E sempre in Ucraina, da vicepresidente di Obama, Joe Biden volò a Kiev e minacciò di bloccare un miliardo di aiuti americani a meno che il governo ucraino non destituisse immediatamente il procuratore capo Viktor Shokin, che all’epoca stava indagando proprio Burisma per corruzione.
La vicenda è stata raccontata a ottobre 2020 dal New York Post, nel primo di una serie di reportage bomba apparsi col titolo Biden’s Secret Emails. Una serie di scoop potenzialmente devastanti per la reputazione di «Sleepy Joe». Subito censurati e bollati dai media, oltre che da Biden stesso, come «disinformazione russa».
Eppure i bonifici erano tanti, tutti autentici e tutti di provenienza imbarazzante. Come oggi sono stati costretti ad ammettere anche il Washington Post e il New York Times, oltre a Cnn e alla stampa internazionale. Miranda Devine, autrice degli scoop sul New York Post, ha raccontato in un bestseller, Laptop from Hell, tutti gli affari della famiglia, ricostruendo gli anelli di una ragnatela di relazioni clientelari che lambisce pericolosamente, da decenni, l’anziano presidente americano.
A cominciare dal suo ingresso a Washington, nei 36 anni da senatore spesi, spericolatamente, tra lobbing e attività parlamentare. «Joe dice che quando qualcuno aiuta la sua famiglia, è come aiutare Joe» ha raccontato Sam Waltz, che da giovane reporter seguiva la carriera di Biden, al settimanale The Nation.
Oltre allo stipendio ucraino, dalle mail contenute nel portatile di Hunter è emersa anche la generosità dell’ex first lady di Mosca, la miliardaria imprenditrice Elena Baturina, che lo avrebbe finanziato nel 2015 con 3,5 milioni, attraverso una serie di bonifici intestati alla Rosemont Seneca Partners. La società di investimenti fondata da Hunter Biden e Chris Heinz, figliastro dello «zar del Clima» John Kerry, all’epoca segretario di Stato. Ma sarà la «China Connection», con loschi chairmen, legati al governo e ai servizi segreti cinesi, a inondare di lucrosi contratti i conti correnti di Hunter.
Almeno 100.000 dollari arriveranno dal controverso uomo d’affari Gongwen Dong, anche se sarà l’incontro con il potente magnate Ye Jianming, legato al presidente Xi Jinping e all’Esercito popolare di Liberazione, oltre che all’affarista di Hong Kong Patrick Ho, a rappresentare per il giovane Biden una vera benedizione. Un po’ meno lo sarà per Ho, arrestato nel 2017 all’aeroporto JFK con l’accusa di tangenti elargite a presidenti africani. Sei mesi prima del suo arresto, Ho assunse come difensore Hunter, remunerandolo con un milione di dollari di onorario.
Ma il più ricco dei business legati al nome dei Biden si innesta tramite il gigante dell’energia China Energy Co (Cefc). Una compagnia, presieduta dal miliardario Jianming, dal fatturato di oltre 30 miliardi l’anno – «ha più soldi di Dio» scriverà in una mail James Gilliar all’ex socio nell’affare, Tony Bobulinski – che era il braccio capitalistico dell’ambizioso progetto La Nuova Via della seta per estendere l’influenza del Dragone nel mondo.
L’obiettivo di Hunter è creare una joint venture internazionale, la SinoHawk, per metà in mano al cinese Ye e per l’altra, stando alle rivelazioni di Bobulinski, posseduta al 20% delle quote da Hunter, al 10% da suo zio Jim Biden e, al netto delle quote degli altri soci, l’ultimo 10% sarebbe spettato a Joe Biden. Il «Big Guy» nei messaggi WhatsApp scambiati da Bobulinski e Hunter.
Lo stipendio di Hunter, proposto da Ye in una cena a Miami nel 2017, sarebbe stato di 10 milioni di dollari l’anno, per almeno tre anni, «solo per l’introduzione». Una proposta irrifiutabile, dal valore di 30 milioni di dollari. L’alleanza viene siglata la sera stessa, da Ye, con un dono dal valore di 80 mila dollari: un diamante da 3,16 carati, immortalato nei file del pc. Altri due bonifici cinesi, ognuno da 3 milioni di dollari, pochi giorni dopo approdano nei conti di una compagnia di un altro socio di Hunter, Rob Walker, dalla State Energy Hk Limited di Shanghai, affiliata alla Cefc. Le due operazioni finiranno nel mirino del dipartimento del Tesoro, che si occupa di crimini fiscali, etichettate come «attività sospette» e archiviate dal Senato come «Confidential Document 16».
Anche se il report concluderà che «non è chiaro quale sia lo scopo e chi sia l’ultimo beneficiario» delle transazioni. Dalle centinaia di file contenuti nel computer, si evince che Hunter ha ricevuto regolari pagamenti da Walker: oltre 56.603,74 dollari come proventi tra giugno e dicembre 2017 e, nello stesso anno, ulteriori 511.000 dollari al suo studio legale Owasco. Walker avrebbe raccontato all’allora partner Bobulinski che il suo ruolo nella Cefc era quello di essere «un surrogato» di Hunter e di Jim Biden per gli affari all’estero, per quelli in Texas con «gli amici repubblicani» e nei «territori nuovi», come in Angola, uno dei corrotti tra gli Stati africani.
Archiviata la holding SinoHawk, dopo aver tagliato fuori dall’affare Bobulinski, i soldi della Cefc, attraverso l’associata Cefc Infrastructure Investement, iniziano ad affluire nelle tasche dei Biden: 100.000 dollari il 4 agosto 2017 depositati sui conti dello studio legale Owasco. Transazione identificata come «sospette attività finanziarie» nel report che le banche devono inviare al dipartimento del Tesoro quando incappano in operazioni irregolari. L’8 agosto Cefc bonifica 5 milioni alla Hudson West III, una società costituita in aprile dai cinesi nel Delaware, che Hunter e suo zio adoperano per il business con il conglomerato dell’energia asiatico.
Ogni mese, per oltre un anno, la Hudson West III invierà pagamenti per «spese di consulenza» allo studio Owasco di Hunter, per un totale di 4.790.375,25 dollari. La stessa società remunererà 76.000 dollari come «spese di ufficio e rimborsi» alla società di Jim Biden, Lion Hall Group. Questi bonifici vorticosi accenderanno una luce rossa nell’istituto di credito di Hunter, che replicherà di essere «chairman and partner» della Hudson West III, indicando Jim Biden come «consultant» della compagnia. L’anno seguente Hunter trasferirà più di 1,4 milioni di dollari da Owasco al conto di suo zio, tramite 20 bonifici tra il 2017-2018.
Queste transazioni sono state indicate come «potenziali attività finanziarie criminali». Una parallela indagine del Senato, promossa dai senatori repubblicani Ron Johnson e Chuck Grasseley, riporterà: «Sara Biden rispose alla banca che non avrebbe fornito alcuna documentazione a supporto (delle operazioni) e rifiutò anche di fornire informazioni aggiuntive per spiegare più chiaramente l’attività. Di conseguenza, la banca ha presentato istanza per la chiusura del conto». L’indagine di 87 pagine punta il dito anche contro l’Amministrazione dell’ex presidente Obama «nella misura in cui ha ignorato i lampanti pericolosi segnali quando il figlio del vicepresidente è entrato nel board di una compagnia posseduta da un corrotto oligarca ucraino».
Tornando al piccolo negoziante del Delaware, da cui tutta la spy story finanziaria dei Biden è partita, alla domanda del conduttore su cosa abbia trovato più disturbante nel portatile dimenticato nel suo negozio, «per esempio la foto di Hunter con la pipa da crack, che è un’attività illegale, o le foto di natura sessuale, è rimasto preoccupato dall’età delle persone ritratte nelle foto?», Mac Isaac ha glissato. Ma ha focalizzato l’attenzione sui file riservati custoditi nel software: «Ho trovato molti documenti imbarazzanti ma quello che mi ha spinto a rivolgermi alle autorità è stata la mia preoccupazione per la sicurezza della nazione e per le attività criminose, che potevano essere ripetute».
Tra i documenti di cui il negoziante ha parlato in tv figurano «molti dati finanziari, che riguardavano soldi esteri ed erano molti soldi. Poi altri documenti strani: “bluestar strategies”, briefing della Casa Bianca sull’Ucraina e gli appuntamenti del vicepresidente con privati cittadini nei suoi viaggi di lavoro. L’intera sicurezza nazionale, contenuta nel pc, era già inquietante e ho pensato che tutto questo materiale dovesse essere preso in consegna dall’Fbi».