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Acqua amara

Acqua amara

La risorsa idrica resta saldamente in mano pubblica e gli enti che la controllano sono diventati un’efficiente fabbrica di poltrone. Soprattutto per il Pd. Che adesso sostiene il «bonus rubinetti» (mille euro a testa per i 15 mila fortunati che li cambieranno). L’ennesima mancia che con la scusa del green in realtà non affronta il problema.


Il governo è in preda alla sindrome di Maria Antonietta. Il popolo affamato dal virus cinese chiede pane. Giuseppe Conte risponde: dategli le brioche. Sotto forma di bonus. Se poi si trova una giustificazione «verde» ancora meglio. La più arguta in questo gioco di specchi ecologisti è la presidente della commissione Ambiente della Camera Alessia Rotta, del Pd, che spiega: «L’Italia è uno dei Paesi che spreca più acqua; con questo bonus aiutiamo l’ambiente». Il pourboire offerto ai cittadini si chiama «bonus rubinetti». Sono mille euro per chi li cambia – i nuovi devono avere una portata limitata a sei litri al minuto, nove litri i soffioni doccia – o per chi rifà il bagno erogati per il risparmio idrico. Da oltre un anno la lobby edilizia e dell’arredamento va chiedendo il rinnovo e il rafforzamento degli sconti già concessi nel 2018: dai mobili alle ristrutturazioni edilizie. In Italia va così: s’invoca la patrimoniale sugli immobili (già gravati dal fisco e con il blocco degli sfratti di fatto in esproprio temporaneo), ma si elargiscono bonus: è la sindrome di Maria Antonietta, appunto.

Il presidente di Assobagno (il settore fattura 2,7 miliardi) Elia Vismara è soddisfattissimo: «Il bonus idrico» ha dettato a Italpress la sua federazione «rientra in una visione più ampia della sostenibilità: accanto all’efficientamento energetico del patrimonio immobiliare, l’efficientamento idrico è l’altro indispensabile tassello».

Il ministro per l’Ambiente Sergio Costa plaude perché «è un modo per tutelare il nostro patrimonio idrico». Costa è il cassiere dei bonus: distribuisce quello per bici e monopattini (esaurito), il superbonus edilizio e ora quello dei bidet. Che però è quasi simbolico. La dotazione è di 15 milioni, il contributo fino a mille euro pari al 65 per cento della fattura d’acquisto: ci saranno solo 15 mila fortunati che potranno farsi la doccia green.

La foglia di fico ecologista che occulta questa mancia però non regge. In Italia sull’acqua si sono scritte migliaia di pagine d’inchieste giudiziarie, si sono fondati imperi economici, ma controllati dalla politica, prosperano enti inutili, non c’è trasparenza sulle tariffe e c’è l’ennesimo referendum negato nei fatti. E c’è un partito che più di tutti gli altri ha interessi liquidi: il Pd.

L’Italia è il primo Paese in Europa per prelievi d’acqua: 428 litri al giorno per abitante. Ma è anche il primo per sprechi. Il 48 per cento dell’acqua si disperde lungo la rete idrica che ha un’età media di 50 anni, è di proprietà pubblica, ma è gestita da un coacervo di società miste (le totalmente private sono poche) di competenza comunale, talvolta regionale. Le società ora diventate multiservizi, per spremere ogni goccia dal contribuente e dare un posto ai politici trombati ma ben retribuiti, sguazzano nei 229 litri al giorno a testa che gli italiani consumano.

È un’acqua sempre più amara: in dieci anni le tariffe sono salite del 96 per cento, una crescita doppia rispetto alla media europea. La spesa media annua per una famiglia di tre persone secondo Cittadinanza attiva è stata lo scorso anno di 434 euro (+2 per cento rispetto al 2018), che al Centro diventa 595 e al Sud 396, ma con una dispersione che supera il 60 per cento e un disservizio assoluto. A Siena e Grosseto si pagano 780 euro; a Crotone il +13,5 per cento, a Varese il +12 per cento, a Roma il+10,7 per cento e Palermo il +10,5 per cento, aumenti da capogiro. Ma ora c’è il bonus rubinetti!

C’è però anche un dibattito mai sopito che parte dal referendum «tradito» del giugno 2011 quando 26 milioni d’italiani dissero: sull’acqua nessun profitto. E invece è stato sì abolito il profitto, ma col sistema tariffario gestito da Arera (l’ente che controlla le reti) si sono fatti rientrare gli oneri finanziari che ingrassano le società multiservizi. Al punto che quando si è insediato il governo Conte bis nel programma pentastellati, Pd e Leu hanno scritto «bisogna approvare subito una legge sull’acqua pubblica». Il risultato è il bonus rubinetti.

Il Pd ha molti interessi all’acqua. Controlla due dei più importanti – e discussi – acquedotti del Sud: quello lucano e quello pugliese. A Potenza hanno insediato Giandomenico Marchese come amministratore delegato. Che l’Acquedotto lucano – il più consistente serbatoio di posti di lavoro della regione – sia stato scosso da una serie infinita d’inchieste che hanno portato anche al rinvio a giudizio dell’ex direttore tecnico Gerardo Marotta pare non interessare nessuno. Marchese si vanta invece di aver dato luogo a un recupero crediti «a strascico» e a un incremento di tariffe del 16 per cento, ma diverse ditte fornitrici sono sull’orlo del fallimento perché il carrozzone idrico è in perdita: oltre 410 mila euro di perdita solo lo scorso anno con una serie annosa di bilanci negativi.

Più o meno va così anche al Pugliese – un acquedotto gigantesco, una miniera d’oro ma solo per i dirigenti visti gli emolumenti – con scandali a raffica: dal cloro, alle assunzioni, alle tangenti sessuali in cambio di appalti. È un centro di potere assoluto tant’è che Michele Emiliano, presidente della Regione proprietaria dell’ente, per tacitare il suo più fiero oppositore Simeone Di Cagno Abbrescia gli ha concesso la presidenza.

La storia liquida d’incarichi, politica e profitti non si esaurisce con gli acquedotti. Ci sono i consorzi di bonifica (alcuni indispensabili, altri inutili che però riscuotono gabelle di cui nessuno conosce fino in fondo finalità e metodo di determinazione) e poi ci sono i giganti dei multiservizi.

Come la Hera che è un feudo del Pd quotata in Borsa: 4,5 miliardi di fatturato amministrata da Stefano Venier che si è raddoppiato lo stipendio che ora sfiora il milione mentre ovviamente si rincarano le tariffe. Il gruppo bolognese è una delle quattro sorelle dell’impero dei tubi: le altre tre sono Publiacqua toscana, feudo renziano, poi ci sono la A2A che fattura 7,3 miliardi, è quotata a Piazza Affari e guidata da Renato Mazzoncini, uno dei Renzi boys accasatosi a Brescia dopo aver lasciato le Ferrovie, e infine Acea, la multiservizi romana che è il più importante gruppo idrico d’Italia con oltre 9 milioni di utenze. Fattura 3,1 miliardi ed è quotata in Borsa. Il nuovo amministratore ha detto di voler puntare sul risparmio idrico, ma intanto ha mandato avanti il sindaco Virginia Raggi (il Comune è il primo azionista) per annunciare un aumento del 19 per cento nei prossimi tre anni delle tariffe dell’acqua. Forse i rubinetti più che cambiarli conviene chiuderli. n

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