Una cifra superiore a 80 miliardi o appena di 15? Si è aperto un dibattito sulla reale entità del «gap» fra le tasse che gli italiani dovrebbero pagare e ciò che lo Stato incassa davvero. A provocarlo lo studio di un docente della Sapienza, Pietro Boria, secondo il quale le stime sui mancati versamenti sono sovrastimate. Ecco che cosa abbiamo scoperto.
Il 5 febbraio scorso è stata una bella giornata per Ernesto Maria Ruffini. Con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al suo fianco, il direttore generale dell’Agenzia delle entrate ha annunciato con soddisfazione gli ottimi risultati raggiunti nel 2023 nella lotta all’evasione fiscale: nell’anno appena concluso sono stati recuperati 24,7 miliardi, un dato record. Ruffini ha inoltre ricordato che il «tax gap», cioè l’indicatore che misura la differenza tra l’ammontare totale delle imposte che andrebbe versato e quello realmente incassato, è sceso nel 2021 a 66,5 miliardi. Questo numero comprende l’evasione stimata di Irpef, Ires, Iva, Irap e affitti. Se poi si aggiungono anche i contributi previdenziali e l’Imu non pagati, si arriva alla cifra di 83 miliardi. Un valore mostruoso, basti pensare che tutte le entrate tributarie totali ammontano a circa 540 miliardi, ma comunque in discesa rispetto ai 108 miliardi del 2017. Se gli italiani non evadessero così tanto, il nostro Paese avrebbe un debito pubblico inferiore e servizi migliori, è il ritornello che da anni ci sentiamo ripetere. Giustamente.
Ma c’è chi invece rifiuta questa narrazione. È l’esponente della Lega Armando Siri, ex sottosegretario alle Infrastrutture, secondo il quale l’evasione fiscale non ammonta a 66 o a 83 miliardi a seconda del perimetro scelto: sarebbe molto più bassa, si aggirerebbe sui 15 miliardi di euro. Un numero decisamente piccolo che trasformerebbe in un moscerino l’elefante nella stanza di Giorgetti.
I 15 miliardi non se li è inventati Siri: l’esponente leghista li ha recuperati da uno studio realizzato da un professore dell’Università La Sapienza di Roma. Il docente si chiama Pietro Boria, è un avvocato e insegna Diritto tributario. Convinto che, come viene ammesso dagli esperti del settore, misurare l’evasione fiscale è tentare di ottenere «prove sull’invisibile», attribuire una dimensione materiale ad un fenomeno intangibile, Boria ha affrontato il tema da una prospettiva innovativa, secondo una metodologia diversa rispetto a quella applicata nei documenti ufficiali adottati dall’amministrazione finanziaria. Con un approccio «bottom up», cioè dal basso verso l’alto, il team del professore della Sapienza ha condotto una ricerca utilizzando dati di settore e micro-economici ricavati da fonti ufficiali come Istat, Mef, Agenzia delle entrate. Come spiega lo stesso Boria in un testo pubblicato sul sito Startmag, il suo è un «metodo a carattere empirico che presenta il vantaggio di fornire una ricostruzione dettagliata e specifica in relazione alle attività e ai contribuenti, differenziandoli per categorie e segmenti di mercato. Il metodo “bottom up” garantisce così migliore aderenza al dato reale, in quanto basato su informazioni più dettagliate rispetto a quelle che si otterrebbero in applicazione dei metodi indiretti (o top down)».
Il risultato del lavoro di Boria è sorprendente: attraverso l’analisi disaggregata dei vari settori economici riferibili alle attività dei contribuenti, il dato dell’evasione fiscale complessiva in Italia è stato stimato in circa 10 miliardi di euro all’anno, valore che viene innalzato a 15 miliardi per correggere potenziali inesattezze e approssimazioni. Ipotizzare che l’evasione sia così bassa ha delle importanti implicazioni politiche e sociali. Quante volte abbiamo letto che il governo userà i fondi ricavati dalla lotta all’evasione per effettuare certe spese, invece di tassare di più i cittadini? E quante volte abbiamo sentito descrivere artigiani e partite Iva come i principali responsabili dell’evasione? Scrive ancora Boria: «Proporre un dato di larga evasione consente di “scaricare” la responsabilità delle criticità di finanza pubblica (ed in specie del disavanzo di esercizio riportato stabilmente negli ultimi decenni) su una platea di “invisibili colpevoli” (vale a dire gli evasori fiscali); inoltre, la rappresentazione di una evasione fiscale massiva e diffusa genera l’aspettativa di una riduzione prospettica del carico tributario futuro sui “contribuenti buoni”, in relazione all’auspicabile andamento favorevole della politica di contrasto al fenomeno evasivo».
Inoltre, sostenere che esiste «una enorme quantità di evasione fiscale sviluppa una inevitabile tensione sociale nel Paese producendo un crescente rancore da parte delle categorie di contribuenti di cui suppone la virtuosità (lavoratori dipendenti e pensionati) nei confronti delle categorie di potenziali evasori fiscali (in particolare, professionisti, commercianti e artigiani)». In sostanza, Boria sembra sospettare che il dato sull’evasione fiscale sia gonfiato apposta. Una tesi ardita. E comunque lo stesso professore della Sapienza ammette che il suo lavoro va preso con le dovute cautele: «La ricerca è destinata non certo a formulare “una verità”, o comunque un risultato univoco, sulla dimensione quantitativa dell’evasione fiscale in Italia, quanto piuttosto a esprimere una linea di tendenza che si pone come alternativa logica alla ricostruzione espressa nella contabilità pubblica». Del resto l’indagine non è stata pubblicata su una rivista scientifica, non è stata soggetta alla «peer review», la pratica con cui gli studi dei ricercatori sono controllati da altri ricercatori esperti nello stesso settore e inoltre il team non sembra avere esperienze in campo statistico. Insomma, sarebbe bello scoprire che noi italiani evadiamo solo 15 miliardi di euro all’anno. Purtoppo non è così.
Il metodo utilizzato dallo Stato italiano e in particolare da una commissione del ministero dell’Economia, guidato dal leghista Giorgetti, composta da 15 esperti in varie materie, dal fisco alla statistica, è quello universalmente adottato dai Paesi più avanzati, dal Fondo monetario internazionale e dalla Commissione europea, le cui stime per esempio sull’Iva non pagata sono molto vicine a quelle del nostro governo. In che cosa consiste questa metodologia? È quella top down, cioè dall’alto verso il basso: in estrema sintesi, si prendono i dati della Contabilità nazionale (che includono la stima dell’economia non osservata), si calcola il gettito fiscale che teoricamente si dovrebbe ricavare e lo si confronta con quello effettivamente ottenuto, desumendo così il «gap», cioè la differenza tra quanto dovuto e quanto incassato. Per maggiore completezza, accanto alla stima top down, viene utilizzata anche la metodologia bottom up per alcune famiglie di imposte. Si tratta di calcoli complessi, soprattutto in Italia dove la tassazione sulle persone è molto diversificata, a seconda che si tratti di dipendenti, pensionati o lavoratori autonomi con una raffica di aliquote differenti.
È possibile che il metodo top down produca risultati sbagliati? Una controprova sulla sua validità arriva da uno studio realizzato dal dipartimento di economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Intitolata Income underreporting and tax evasion in Italy: estimates and distributional effects (Sottodichiarazione dei redditi ed evasione fiscale in Italia: stime ed effetti distributivi), la ricerca adotta un approccio originale per misurare l’evasione sull’imposta sul reddito delle persone fisiche. Gli studiosi hanno concentrato la loro attenzione sul fenomeno dell’«underreporting»: nel caso di indagini dal basso verso l’alto, gli intervistati mentono sui propri redditi sottostimandoli nel timore che si possano stabilire collegamenti con quanto hanno riportato nella propria dichiarazione dei redditi. I risultati della ricerca veneziana arrivano così a risultati molto simili a quelli indicati dalle stime della Commissione del ministero sull’evasione fiscale.
Come disse lo scrittore statunitense Herman Wouk, autore de L’ammutinamento del Caine, «Le sole opere di fantasia immaginifica che vengono scritte oggi sono le dichiarazioni delle tasse». E in questa letteratura gli italiani sono maestri, ben oltre le speranze del professor Boria.