Kimono, dove l'Oriente e l'Occidente si incontrano
(Photo by Giovanni Giannoni/WWD/Penske Media via Getty Images)
Moda

Kimono, dove l'Oriente e l'Occidente si incontrano

La nuova mostra al Museo del Tessuto di Prato racconta la ricca storia del capo, musa di stilisti e pittori e «catalizzatore» della liberazione della donna dal corsetto

Il Museo del Tessuto di Prato dedica la sua ultima mostra al kimono, indumento tradizionale del Giappone. L’esposizione, intitolata KIMONO - Riflessi d’arte tra Giappone e Occidente andrà in scena fino al 19 novembre 2023 ed esplora le contaminazione creative e culturali, intervenute tra Europa e Giappone, prevalentemente dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, attraverso l’esposizione di un’accurata selezione di opere che di quei reciproci influssi testimoniano i passaggi fondamentali.

«La mostra rappresenta un omaggio che il museo vuol rendere alla straordinaria perizia che caratterizza la secolare tradizione tessile del paese del Sol Levante, offrendo ai nostri visitatori la possibilità di conoscere un ricchissimo patrimonio, altrimenti destinato alla fruizione esclusivamente privata» ha raccontato il presidente della Fondazione Museo del Tessuto, Francesco Nicola Marini.

Cinquanta kimono maschili e femminili, appartenenti all’esclusiva collezione privata di Lydia Manavello, insieme a dipinti, xilografie, cartoline d’epoca, stampe e tessuti, compongono la mostra in una straordinaria rassegna che testimonia il ruolo centrale del kimono nell’evoluzione della moda e dell’arte, con particolare attenzione al fenomeno del Giapponismo.

I kimono sfilano uno accanto all’altro nella suggestiva sala a capriate del museo, raccontandone la ricca e complessa storia.

Il kimono (着物) - letteralmente «cosa da indossare» - nasce infatti nel periodo Heian (794-1192) cucendo insieme tagli dritti di tessuto (metodo di taglio rettilineo), facilmente adattabili a ogni fisico. Il kosode - questo il nome datogli in quegli anni - veniva indossato a strati, utilizzando colori e fantasie diverse a rappresentare la classe politica, i tratti della personalità e le virtù di chi lo indossava. Solo i membri della classe superiore potevano arrivare a indossare il jūni-hitoe, la «veste a dodici strati», composta di materiali pregiati importati come la seta.

Durante il periodo Kamakura (1185-1333), con l’ascesa della classe dei samurai - vediamo perdersi il concetto di strati, ma il kimono inizia ad arricchirsi di broccati e a essere accompagnato da pantaloni, gli hakama. Questa usanza ha però vita molto breve e nel periodo Muromachi (1336-1573) compare per la prima volta uno degli elementi più riconoscibili del kimono moderno, l’obi (fascia per tenere il kimono chiuso in vita, ndr).

Nel periodo Azuchi-Momoyama (1568-1603), grazie ai tessuti importati dalla Cina e a nuove tecniche di tessitura e ricamo, il kimono acquista una forma più elegante. È però nel periodo Edo (1603-1868), che questo capo di abbigliamento si evolve, con le maniche che diventano sempre più lunghe, a riflettere il passaggio da “bambina” a donna. Sono gli anni delle geishe e dei teatri Kabuki.

Per sentire per la prima volta il termine «kimono» bisogna però attendere il periodo Meiji (1868-1912), quello in cui il Giappone per la prima volta apre i suoi porti all’Occidente. Da qui inizia una vera e propria commistione di culture e l’abito inizia ad assumere tinte sempre più audaci.

Il kimono diventano anche una fonte di ispirazione per gli artisti occidentali, come ad esempio il pittore Gustav Klimt, che lo ritrae nel suo Dama col ventaglio (1918). Sono gli artisti impressionisti ad apparire particolarmente affascinati dal Giappone e dai suoi colori, da qui il termine Giapponismo, che tra i suoi esponenti vanta nomi come Claude Monet, Edouard Manet e Pierre Bonnard.

Con il termine della seconda guerra mondiale, il kimono sembra completamente sparire dal Giappone. Nell’occupazione che seguì il secondo conflitto, la cultura del Sol Levante divenne infatti sempre più americanizzata. Per questo motivo a partire dagli anni Cinquanta il governo Giappone ha promulgato diverse leggi a tutela dei loro beni culturali, come particolari tecniche di tessitura e tintura.

(Wikimedia)

A contribuire alla preservazione del kimono è stato anche l’interesse della moda verso questo storico indumento. «Man mano che il suo uso effettivo diminuisce, così il suo status simbolico si espande e arriva a rappresentare il Giappone in un mondo globalizzato» ha dichiarato Anna Jackson, curatrice di Kimono: Kyoto to Catwalk, mostra tenutasi al Victoria & Albert Museum di Londra nel 2020.

Secondo Monika Bincsik, curatrice di Kimono Style, la mostra organizzata lo scorso anno dal MOMA di New York, sarebbe addirittura il kimono ad aver «liberato da donna dal corsetto», arrivando a definirlo un «catalizzatore» che ha contribuito a ispirare nuove forme e sagome in tutta la moda occidentale e non giapponese.

Molti couturier, attratti dalle stampe del kimono, avrebbero infatti iniziato a studiarne la silhouette, abbracciando così un nuovo modo di vestire, più comodo e rilassato. A partire da Paul Poiret, il primo a portare il kimono per le strade di Parigi. È poi il turno di Balenciaga che ne ricerca i volumi e le proporzioni portandolo in passerella nel 1939, seguono Yves Saint Laurent che lo introduce nella sua collezione autunno/inverno 1970, John Galliano che lo decostruisce prima per Dior e poi per Maison Margiela, Dries van Noten che lo reinterpreta in chiave hollywoodiana e Alessandro Michele che lo omaggia nel suo Gucci.

Non possono poi mancare gli accenni ad Alexander McQueen con il kimono disegnato per Björk o il completo kimono di Thom Browne. L’abito tradizionale giapponese finisce persino a influenzare Christian Louboutin con le scarpe che traggono ispirazione dall’obi.

L’influenza del kimono nella moda occidentale perdura nel tempo e deve la sua longevità anche alla presenza sempre più forte di stilisti giapponesi sulle passerelle più importanti del mondo, da Issey Miyake a Rei Kawakubo fino a Kenzō Takada e Yohji Yamamoto.

Luigi Vitale

Kimono informale da donna (komon)

Metà del secolo XX

Collezione Lydia Manavello

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Mariella Baroli