Di Marta Pranzetti per Lookout news
Per la seconda volta in due mesi, miliziani del gruppo islamista somalo di Al Shabaab sono entrati in un villaggio keniota del remoto nord-est, vicino al confine con la Somalia, con l’intento di fare razzie e islamizzare le popolazioni locali. Questo rende sempre più evidente il mutamento nel modus operandi e negli obiettivi del gruppo terroristico somalo affiliato ad Al Qaeda. Accerchiato in patria dall’offensiva militare che sta tentando di contrastarne la destabilizzante attività armata, Al Shabaab è sempre più proiettato verso il Kenya, preso di mira sia per la sua partecipazione al contingente militare dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) che per la sua popolazione a maggioranza cristiana.
L’invasione, il 1 giugno, del villaggio keniota di Warankara (che per il momento ha comportato la chiusura delle scuole ma non si registrano ancora vittime) ha ormai numerosi e ben più drammatici precedenti. Il villaggio di Youmbis, sempre verso la frontiera keniota nord-orientale, è stato attaccato dai miliziani di Al Shabaab a fine maggio con un bilancio di almeno 20 agenti di polizia kenioti uccisi. Ad aprile il ben più devastante attentato nella scuola di Garissa in Kenya aveva provocato 150 morti tra gli studenti; nel giugno 2014 era stata presa di mira la località turistica keniota di Mpeketoni (una cinquantina di vittime) e nel settembre 2013 era toccato al centro commerciale Westgate Mall di Nairobi (70 morti).
Inutile la mossa delle autorità somale che sperano di ridurre l’influenza del gruppo imponendo che non venga più nominato con l’appellativo “Al Shabaab” (in arabo, “gioventù”, un termine dalla connotazione intrinsecamente positiva) bensì con l’acronimo UGUS che in somalo sta per “il gruppo che massacra il popolo somalo”. In risposta alla simbolica presa di posizione da parte del governo di Mogadiscio, il movimento jihadista ha a sua volta rivolto la stessa denominazione, UGUS, alla leadership somala giocando sul significato ambiguo del verbo massacrare/sottomettere.
Le presidenziali del 2016
Che la Somalia non sia un modello di governance democratica d’altronde è noto a tutti. Ma l’iniziativa politica “Visione 2016” avviata nel settembre di due anni fa potrebbe forse offrire al Paese una chance di riuscire alle prossime elezioni presidenziali previste per il 2016. Riuscire ad affermare il primo presidente liberamente eletto nel Paese dopo vari colpi di Stato, governi militari e conflitti che si sono susseguiti dai primi anni Novanta.
La sfida più grande, in questo scenario, è rappresentata dalla candidatura alle prossime presidenziali di Fadumo Dayib, la prima donna somala a concorrere per l’incarico. A un anno dal temerario annuncio della sua candidatura, la giovane somala residente in Finlandia (dove si era rifugiata con la famiglia allo scoppio del conflitto), continua a ricevere minacce di morte per il suo impegno nella sfera pubblica. “In una società dove se sei donna non sei nulla, ricevere queste “attenzioni” mi fa capire che non sono più così invisibile e questo significa che sono sulla strada giusta” – ha affermato la candidata in una recente intervista alla BBC.
“È inaccettabile che in un Paese dove l’85% della popolazione è al di sotto dei 35 anni, i giovani non abbiano mezzi per sopravvivere e nessuna prospettiva di futuro. Ma il problema della Somalia non si risolve con assistenza tecnica o sanitaria, serve un cambio di leadership e un radicale mutamento nel modo di concepire la gestione di governo”.
Indicatori socio-economici tra i peggiori al mondo
Nonostante i recenti passi in avanti nella pacificazione nazionale, nella formazione di un governo di transizione e nel contenimento dell’attività jihadista di Al Shabaab, infatti, violenza, insicurezza e ingovernabilità dominano la società somala. La situazione umanitaria, inoltre, è tra le più gravi al mondo: l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite relativo all’Indice di Sviluppo Umano piazza la Somalia al 165esimo posto su 187 Paesi scrutinati.
La carestia che ha colpito il Corno d’Africa tra il 2010 e il 2012, tra le più gravi degli ultimi 25 anni, ha ucciso 260.000 persone e l’emergenza non è ancora rientrata. Povertà, malnutrizione, insalubrità e scarso accesso alle risorse primarie minano la sopravvivenza di metà della popolazione. In Somalia, inoltre, si contano tuttora più un milione di sfollati e altrettanti rifugiati nei Paesi limitrofi come conseguenza dei conflitti e delle violenze.
Per di più, gli indicatori socio-economici in Somalia sono i peggiori di tutta la regione (e tra i peggiori al mondo): un bambino su 7 muore prima di aver raggiunto il primo anno di età e oltre 200.000 sono soggetti a malnutrizione; solo il 42% dei bambini è scolarizzato (di cui solo un terzo sono bambine); una donna ogni 18 muore durante il parto e in particolare le donne sono soggette ad abusi, violazioni e violenze sessuali; il tasso di disoccupazione giovanile è del 67% (su una popolazione dove il 70% ha meno di 30 anni).