Le responsabilità della crisi in Libia
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Le responsabilità della crisi in Libia

Il paese è allo sbando. Tutto iniziò con la guerra voluta da Sarkozy nel 2011 e il sì dell'Italia distrusse gli accordi presi tra Berlusconi e Gheddafi

Finalmente si parla anche delle responsabilità per la guerra in Libia. Mi riferisco alla guerra che portò nel 2011 all’eliminazione politica, militare e poi anche fisica di Moammar Gheddafi, al quale ci legava un Trattato di amicizia col quale l’Italia di Berlusconi era riuscita a chiudere un faticoso, pluridecennale contenzioso coloniale.

Bisogna pur dirlo che a volere quella guerra fu la Francia di Sarkozy, per due motivi: il primo di politica interna (Sarkò soffriva da tempo di un grave calo di consenso in patria e doveva scaldare di nuovo il cuore dei francesi anche a costo di una bella guerra), il secondo economico (le aziende francesi stavano perdendo terreno in Nord Africa a vantaggio proprio dell’Italia). Sarkozy ebbe perfino la tracotanza di comunicare agli alleati che aveva dato l’ordine di attaccare, dopo che i suoi caccia erano già decollati.

Lo fece in un drammatico vertice a Parigi che sarà ricordato proprio per quell’infausta decisione che oggi mostra le sue dirompenti conseguenze (di fronte alla bandiera nera del Califfato che sventola a Sirte e allo spettacolo, deprimente e spaventoso, di un grande paese petrolifero come la Libia, che dista solo 350 chilometri dalle nostre coste, e è spezzato in più tronconi con oltre un centinaio di milizie armate in guerra tra loro).

Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna seguirono le follie bellicose di Sarkozy, per insipienza politica o per supposti interessi da preservare o riconquistare, o per un antico riflesso anti-gheddafiano. Va riconosciuto invece a Berlusconi d’essere stato (insieme a Angela Merkel che si tenne saggiamente fuori dal conflitto) l’unico leader occidentale a criticare apertamente la china che la crisi stava prendendo.

E va detto che la sinistra italiana lo sbeffeggiò e criticò per "l’amicizia" con il Colonnello (ricordate quante articolesse indignate per la visita di Gheddafi a Roma, tra amazzoni e libri verdi distribuiti a frotte di hostess nell’ambasciata libica, o per la parata dei leader al Carosello dei carabinieri?). La realtà è che Berlusconi aveva costruito pazientemente negli anni quella riconciliazione con la Libia perseguita già dai suoi predecessori, Prodi e D’Alema, fino a chiedere pubblicamente scusa per le fasi più crudeli dell’epoca coloniale e fino a trasformare la giornata della memoria anti-italiana, il 31 agosto, nella giornata della ritrovata amicizia tra i due paesi.

Si trattò di un merito storico (la Francia non è mai riuscita a chiudere il contenzioso coloniale con l’Algeria) e di una esemplare operazione di politica estera: immense le opportunità economiche per le nostre aziende in un paese ricco e fornitore di energia, senza contare che la “pace” con Tripoli azzerò di fatto i flussi di migranti clandestini verso l’Italia.

La guerra a Gheddafi distrusse tutto questo, e si fece col consenso e il supporto dell’Italia che dovette tradire il Trattato di Amicizia appena firmato. Questo fu possibile per le pressioni alle quali Berlusconi fu sottoposto in sede europea, ma soprattutto per le sponde che in Italia quelle pressioni trovarono dentro il Parlamento, dentro il governo e al Quirinale.

Daniela Santanchè ricorda bene: la decisione di far parte della coalizione contro Gheddafi ebbe un protagonista, Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica e comandante in capo delle Forze armate, in un drammatico gabinetto di guerra notturno nelle pause di una rappresentazione al Teatro dell’Opera di Roma. Tutti coloro che ebbero modo di vedere e parlare con Berlusconi in quelle ore ricordano benissimo il pallore, la contrarietà, la preoccupazione dell’allora premier consapevole che si stava commettendo un errore tragico. Anche dentro l’esecutivo le posizioni erano diversificate. Quello fu, oggettivamente, un momento di rara condivisione tra Berlusconi e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, col quale i rapporti non erano certo idilliaci, contro l’opinione di altri ministri che subivano la pesantezza delle pressioni alleate.

Questa è la storia. E questo è giusto ricordare.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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