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Un sacchetto di biglie, al cinema – La recensione

Un film sorprendente e bellissimo, storia vera nella Shoah in Francia. Con una coppia di imprendibili fratellini ebrei in fuga dai nazisti

Due fratellini ebrei in fuga nella Francia in guerra tra il 1942 e il ’44. Scappando dai nazisti e dagli altri contingenti orrori, famiglia dispersa e coscienze allo sbando. Ecco Un sacchetto di biglie (in sala da giovedì 18 gennaio, durata 108’) che Christian Duguay, canadese poco più che sessantenne già autore, nel 2015, di Belle & Sebastien - L'avventura continua, desume dal libro omonimo di Joseph Joffo (Rizzoli): ricavandone un film che al prevedibile, in un certo senso scontato, impegno civile allega un sorprendente valore cinematografico, scodellando una storia nella Storia che conquista e regala emozioni senza schegge di retorica o di complainte. Una rivelazione.

Un baratto provvidenziale nel destino benevolo

Già, perché Joffo nel suo romanzo - dunque Dugay nel film - racconta ciò che davvero è accaduto a lui e a suo fratello Maurice (recitano rispettivamente nelle loro parti Dorian Le Chech e Batyste Fleurial), prima nella Parigi occupata dove sta incominciando la caccia all’ebreo e dove il destino benevolo, per Joseph già marchiato con la Stella di Davide sul cappotto, si manifesta quando un suo coetaneo in cambio di quella Stella gli dà quel sacchetto di biglie che lo accompagnerà per tutto il viaggio. Come un portafortuna.

Percorso a ostacoli verso la “terra libera”

E di fortuna, Joseph e Maurice, hanno davvero bisogno dopo aver lasciato i loro genitori Roman (Patrick Bruel) magnifico padre e Anne (Elsa Zylberstein) dolce protettiva madre, che dolorosamente li allontanano  da sé dopo aver abbandonato il lavoro e averli messi in strada con cinquemila franchi ciascuno in tasca. Il percorso, naturalmente, è a ostacoli verso la “terra libera”: da Parigi a Dax, poi a Nizza, infine ad Aix-les-Bains, sempre a rischio cattura, sempre sul filo del cedimento anche fisico. Fino alla notizia tanto attesa della liberazione di Parigi, dove i ragazzi tornano ricongiungendosi alla famiglia, la madre e i due fratelli maggiori. Roman, invece, non c’è più, inghiottito da Auschwitz.

Verso il Giorno della Memoria nel più adeguato dei modi

Sarà perché le vicende sono realmente accadute (Joseph e Maurice vivono ancora, tra i nipotini, a Parigi), sarà perché Dugay le racconta in cifra teneramente avventurosa: sta di fatto che il film si raccoglie in un’armonia vivida, carica, pastosa, avviandosi nel più adeguato e meno melodrammatico dei modi a celebrare quel Giorno della Memoria (sabato 27 gennaio) cui certo la sua uscita – frutto di un’intelligente e intrepida scelta distributiva - s’accosta in modo propedeutico. Ben rappresentandovi il contributo del cinema e della sua maniera di fare arte.

Temi sempre attuali fra umanità e generosità

C’è dell’attualità, naturalmente, in questa storia che al suo interno ne incrocia molte altre – di persone, di drammi, di umanità e di generosità – e rimanda a tutti i colori possibili dell’erranza, dei popoli in fuga, dell’incontro solidale con altri popoli e altre culture.  Tematiche dilatabili in termini universali, come sempre. Che il film richiama in modo obliquo riservando piuttosto all’immediato, dunque alla fruizione diretta, una vicenda individuale e collettiva legata alla Shoah e rappresentata così com’è, nel suo pieno contesto storico ed emotivo, ancor meglio di quanto fece Jacques Doillon nel ’75 con la prima trasposizione cinematografica del libro. Con meriti, qua, determinati dalla rotondità della rappresentazione, dalla precisione dei raccordi e della sintesi temporale, dalle tonalità calde e dalle trasparenze della fotografia di Christophe Graillot.

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