Ti odio talmente che ti tengo con me: bibliomanie distruttive
Quando un venerdì di luglio i soldi improvvisamente finiscono, Chip, il protagonista delle Correzioni, comincia a vendersi i libri. I primi che finiscono nella lista sono i marxisti. Solo Razionalità nell’azione e razionalizzazione dell’azione sociale di Habermas gli …Leggi tutto
Quando un venerdì di luglio i soldi improvvisamente finiscono, Chip, il protagonista delle Correzioni, comincia a vendersi i libri. I primi che finiscono nella lista sono i marxisti. Solo Razionalità nell’azione e razionalizzazione dell’azione sociale di Habermas gli era costato 95 dollari, ma tutto il pacco gliene frutta 65. Poi è la volta di Adorno, Jameson, «le femministe, i formalisti, gli strutturalisti, i poststrutturalisti, i freudiani e gli omosessuali». L’unico che non riesce a vendere è Shakespeare, perché «aveva in sé una sorta di incanto – i volumi uniformi nelle copertine azzurro pallido erano come un arcipelago di rifugi sicuri», poi riprende a riempire la busta con Foucault, Greenblatt, ecc.
(Mentre scrivo, leggo che per le vie del centro dell’Aquila verrà rappresentato il Troilo e Cressida, e chi ha letto Le correzioni sa che divertente coincidenza sia questa).
E certo, come biasimarlo, Chip. Che ci vuole a buttare i libri di scuola. Eh, no, perché Chip è un critico della società di massa, quella roba è pane e acqua per lui, non sta vendendo Tolkien, sta vendendo pezzi della sua coscienza.
Confesso che spesso la sera mi sorprendo a fantasticare di vendere alcuni libri, non solo, come probabilmente succederà, in caso di bancarotta, ma per gusto, per sadismo o per vendetta.
Non sto parlando di libri platealmente inservibili o di quelli regalati da fidanzate di zii che non vedi da trent’anni, peraltro già venduti o regalati; non parlo nemmeno di quei titoli funky che danno quel brividino di scottante piacere quando qualcuno ti viene a trovare e ha il cuore di non chiederti se li hai letti tutti, come Mastectomia e priapismo come allusioni al trickster nel “carnevale” balinese, Come diventare Papa in 9 semplici mosse partendo da livello Supersayan, Come dire al tuo ex che vuoi tornare con lui anzi con lei, o Perché, secondo voi Trotsky s’è comportato bene alla Seconda Internazionale?
Parlo di quelli che stanno lì, sugli scaffali, in mezzo ai libri validi, con la loro faccia o il loro dorso, assolutamente a nessun titolo e con nessun diritto tra quelli sopra elencati, e che una forza strana trattiene in un posto che non spetterebbe loro. Libri che abbiamo letto, pure, trovandoli infami, e che pure non riusciamo a buttare, ma non perché fanno biblioteca o perché ritenuti da tutti signori libri, figuriamoci, ma per qualcosa di più complesso che riguarda il nostro rapporto con loro.
I libri che mi darebbe uno straordinario piacere vendere non sono quelli più facili da vendere, cioè quelli che la gente compra più volentieri, ma quelli che un commerciante di libri usati storcerebbe la bocca a prendere in mano e dopo due minuti di contrattazione si convince a acquistare perché gli diresti che farebbero gola a lettori esigenti disposti a spendere parecchio; sono quelli cioè le cui quotazioni sono alte.
Sarebbe come, chessò, per un dominus romano vendere schiavi ancora validi ma svogliati o antipatici.
Libri da affrancare dall’ambiguo rapporto di possesso che istauriamo tra loro, libri liberti, che però si ribellano a questo destino, e restano lì.
Penso sia chiaro che l’abbandono di un libro, per piacermi, deve farmi un po’ male.
Devo salire, anche di prezzo: la propensione all’essere venduti dei miei libri non è direttamente proporzionale alla loro economicità, anzi.
No, la mia fantasia di sprezzante signora e padrona delle mie proprietà neglette riguarda i libri che ho letto tutti, fino in fondo, senza avvalermi del diritto stabilito da Pennac di lasciare i libri brutti a metà (a proposito: grazie)
Io devo averli letti, questi libri. Ma perché li ho letti? Intanto, perché ho un Super-Io mitologico; poi perché in alcuni casi il loro non piacermi mi piaceva. È difficile da spiegare. Ogni tanto ne prendo uno e gli dico «dobbiamo parlare, non possiamo andare avanti così. Io ti odio, ma nemmeno: ti disprezzo: che ci stai a fare qui?». Lui zitto.
In alcuni casi, più semplicemente, li ho letti perché volevo vedere fin dove arrivava l’autore.
In altri, per aggiungere al mio arco tutte le frecce dell’argomentazione contraria nel caso di cene con gente del mondo dell’editoria che trova simpatico parlare, a cena, di libri.
Vabbè, dice, ma se alla fine questi libri vuoi tenerli, pure se ti stanno antipatici, perché ti metti a fantasticare di venderli? E non fai prima a immaginare di fare tutto un pacco e disfartene con l’onesta leggerezza che ci si aspetterebbe da chi abbia passato un paio di esantematiche?
Eh, no: una scelta è una scelta. E più è crudele più è divertente. Alcuni libri vanno puniti per la copertina, altri perché non hanno mantenuto quello che promettevano, altri perché è così e basta.
Ci siamo, dunque. Venderei quelli la cui vendita scandalizzerebbe un recensore autorevole e contemporaneamente avesse il peggior rapporto qualità/prezzo (libri ritenuti universalmente belli, che mi sono massimamente dispiaciuti, che sono costati *tanto*, che sono oggettivamente bei libri, ma non abbastanza). Quindi diciamo, a occhio, questo
Reazione 1: Ih! Un Premio Nobel! Ma tu sei matta. Reazione 2: Ah, ma il Premio Nobel! Si sa, i Premi Nobel fanno schifo.
Ah sì? Ok, allora questo: Nobel ma simpatico
Sì vabbè, sai che fatica, ma a chi piace davvero EH, a parte quelli con la Moleskine?
Va bene, ci siamo: tutto sommato, direi, allora, questo
Ora il punto è: considerato che sono povera, come da post di qualche giorno fa, considerato che questi libri mi fanno schifo nel modo complesso e articolato che è stato detto, perché non me ne disfaccio?
Se per il bibliomane collezionare libri vuol dire farli rinascere, che tipo di rapporto è quello che vede me possedere e conservare libri di cui voglio la morte?
Come si chiama quella figura di bibliofilo che persiste nella deliziosa e perversa infelicità di vedere ogni giorno sui propri scaffali, nel proprio sempre più ristretto spazio vitale, la faccia di quegli odiosi, inutili, spocchiosi, riottosi foglietti incollati?
Perché soccombo alla resistenza di questi schiavi all’osservanza di qualsiasi codice comportamentale che regoli il nostro rapporto? Perché questi idioti godono dell’appartenere a un insieme che si autoglorifica nella quantità?
Ma allora la frase Habent fata sua libelli va presa senza la sua premessa fondamentale, che dice che questo destino dei libri dipende dalla capacità (e dai gusti) dei loro lettori? E se fossero loro, a odiarci, tanto da non volerci lasciare?