Sanremo 2015 di divano in divano
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Televisione

Sanremo 2015 di divano in divano

Primo contatto, a distanza, con l'evento televisivo dell'anno

Ogni anno un uomo esce dal lavoro e sa che dovrà correre (peggio per lui se nel traffico della Capitale) per arrivare sul divano di casa e non perdersi l'inizio del Festival di Sanremo.

I social network, specchio dei tempi, come è ovvio prestano il fianco al malumore ontologico, al cinismo facile e alla polemica sterile sul Festival: anche questo è il carattere nazionale.

Sanremo ci fa schifo, ci fa inorridire, i post su Facebook invocano pietà, i tweet su Twitter gridano vendetta. Manca tutto: buongusto, bella musica, modernità. L'ironia regna sovrana, lo scoramento è principe.

Ma, nonostante il carrozzone, soggettivamente, ci possa pure infastidire, l'unico dato oggettivo è che, non foss'altro che per parlarne male, non facciamo che parlarne.

Festival fuori sede

Quest'anno, come altre volte, sono chilometri lontano da quella casa che, nella moltiplicazionei di stanze, case, brandine che ho occupato negli anni, è in fondo la sola che riesco a considerare tale.

Sanremo, nella mia memoria, è un momento e un luogo esatto (il divano della casa di quando ero bambino, coi miei genitori, gli amici e i parenti) in cui, vuoi per il clima freddo fuori e il tepore terapeutico delle copertine ai ferri delle nonne, vuoi per la gara canora, che scatena rivalità e nella competizione crea coesione tra chi assiste (e televota) da casa come solo la tombola di capodanno, le tradizioni ci facevano sentire più vivi che mai.

Ma la generazione dei trentenni di oggi, nella diaspora della precarietà, fra cibo spazzatura e orari sballati, fa fatica a tenere dritta la barra delle tradizioni e dei ricordi.

Mamme lontane seguono Sanremo ad anni luce da noi. Gli amici con cui si è tentato di organizzare, all'ultimo minuto, tra lavori improvvisi, consegne arretrate e code in tangenziale, hanno finito per defezionare. Recupereremo domani.

Così, pur non avendo un televisore in casa, finisce che torno a casa, ceno con una pasta al tonno, e mi metto sul divano con il portatile, pronto a guardare il Festival da solo.

Ma, una a una, rincasano le mie coinquiline. Stupite dal fatto che stia guardando il Festival, iniziano a sfottermi, a incalzarmi, ma alla fine, come rapite dalla retorica festivaliera (a livelli altissimi nelle abilissime mani di Carlo Conti) finiscono col sedersi sul divano con tazze di cioccolata calda fumante e biscotti.

Inutile negare, l'atmosfera non è la stessa dei Festival di Pippo Baudo, lustri fa. Difficile credere davvero che qualitativamente fossero Festival migliori, ma insomma, è una questione di ingenuità dello sguardo che avevamo, forse solo anagraficamente, forse addirittura come Paese.

Come evitare l'ulcera

Per guardare Sanremo senza farsi venire un'ulcera e accodarsi all'acidità delle critiche, l'unico modo è sospendere il giudizio critico.

Se solo ci si mettesse a contare le volte in cui i cantanti, nelle esibizioni e nelle battute pre e post, pronunciano la parola "amore" non resterbbe che lasciarsi morire di diabete o imbracciare un mitra.

Meglio abbandondarsi il prima possibile a un sonno della ragione, in cui le frecciatine tra Al Bano e Romina, il palese disappunto di Arisa, e tutte le stucchevoli dichiarazioni dei cantanti sul palco (ognuno, dice, è lì per amore, della musica quantomeno, in realtà, basterebbe chiedergli conto di quanto incasserà di diritti Siae per quei pochi minuti in quella fascia oraria in televisione, o se saprebbe fare una stima dell'indotto che ricaverà nei prossimi mesi) scompaiano del tutto, e non resti altro se non il tiepido flusso di nostalgia.

Da lasciar prevalere, smettere coi caustici tweet e post per farci belli davanti a spettatori virtuali tra un'esibizione e l'altra, e cercare di riscoprire la convivialità analogica familiare, in nuove forme di famiglia, anche se temporanee.

Messo via lo smartphone, la magia di Sanremo avrà la meglio su tutto, anche sul buonsenso. Unica deroga: scriversi su Whatsapp con la mamma (la mia mi ha scritto in sequenza: "Ma com'è vestita Arisa?", "Tra Britti e Grignani stonature tremende", "Grande Tiziano", "Che bella Annalisa").

Perchè è vero che Sanremo è Sanremo.

Ma la mamma è la mamma.







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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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