Jonny Wilkinson dà l'addio al rugby
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Jonny Wilkinson dà l'addio al rugby

Conquistata la Champions della palla ovale con il Tolone, il fuoriclasse inglese giocherà sabato la sua ultima partita nella finale per il titolo francese

di Giorgio Cimbrico / SportivamenteMag

Due partite, due finali a cavallo del suo 35° compleanno: sabato 24 maggio a Cardiff, Tolone-Saracens per la Champions che nel rugby si chiama Heineken Cup (vinta, la seconda di seguito, con un suo mirabile drop); l’altra sabato 31 maggio, a Parigi, Tolone-Castres per il titolo francese, lo scudo di Brenno. Poi, l’addio alle armi di Jonny Wilkinson.

Facile dire: è già nel mito. No, è solo nella storia. Sul Guardian un’ode a Jonny, una mente lucida, un piede sapiente e uno stile nitido che ci hanno accompagnato in questi quindici anni, che hanno costruito quel che oggi frettolosamente viene etichettato “mito”. Bonnie Prince Jonny è l’uomo che visse una, due, tre volte, che decise un Mondiale con una parabola da implacabile Grande Berta, il placcatore senza paura che ha subìto le maledizioni della zingara romena portatrice di ogni pena o, citando Shakespeare, gli strali della sorte, e se li è lasciati alle spalle. Il carattere è tutto, ed è inutile rievocare il tempo in cui dopo aver sbrigato in pochi bocconi il pranzo di Natale con sconcerto di mamma Pippa, andava al campo a piazzare il pallone su ogni verticale, anche la più angolata, per cercare la strada che porta in mezzo ai pali. Esiste un filmato in cui Jonny infila l’ovale calciandolo da dove nel calcio si batte il calcio d’angolo. Una mirabilia balistica.

Nato nella seconda luna di maggio come il principe Gotthama, Jonny si è avvicinato al buddhismo nell’estate del 2008. “Non sapevo cosa fosse la felicità, ero oppresso dal senso del fallimento e non sapevo come liberarmi dalla forza distruttiva che sentivo dentro di me. L’obiettivo continuo della performance mi rendeva miserevole. Ora ho la consapevolezza che la morte non si può battere, ma possiedo la serenità di questa presa di coscienza e mi sento libero dall’ego e dalle vanità”. Non resta che sedere sotto il sacro albero di mango e avrete la rivelazione, l’illuminazione: Jonny deve essere dolcemente adorato, senza isterie. Wilkinson condivide gli stessi precetti morali abbracciati da Richard Gere, da Angelina Jolie, da Keanu Reeves, da Tiger Woods (che deve averli accantonati) e quasi undici anni fa ha saputo racchiudere tutto un Mondiale dentro un drop, ha superato infortuni che per altri, tanti altri, sarebbero stati tristi e finali, si è reincarnato nel giocatore del Tolone, dopo aver servito per lunghi anni nei Newcastle Falcons: della costa mediterranea porta addosso l’abbronzatura e un francese perfetto.

Jonny Wilkinson è l’Enrico V del rugby, anche se di lui non si conoscono orazioni tenute nei giorni dei santi Crispino e Crispiano; è il perfezionista che ha cercato e trovato nuove consapevolezze, che ha sofferto e superato gli inganni e i trabocchetti del destino, che a 35 anni ha storie da raccontare quante ne aveva Sherazade seduta di fronte al califfo. Sale la tentazione di renderlo per record e per numeri (in sintesi scheletrica, 5.000 punti), come fosse un macchinario antropomorfo, un automa che sa calcolare perfettamente il pendolo della gamba, la forza di impatto, l’equazione potenza-distanza- velocità del vento all’altezza raggiunta dall’ovale, l’ampiezza dell’angolo a disposizione: ha studiato anche fisica e quella dei quanti gli ha rivelato il magnifico ordine dell’universo. “Ma non crediate possa diventare un nuovo Stephen Hawking”.

La realtà e la storia dicono che è da quel 22 novembre 2003, da quel calcio di rimbalzo al 12° del secondo tempo supplementare che condannò l’Australia e che ridiede all’Inghilterra un titolo del mondo a squadre a 37 anni dal Mondiale di calcio del 1966, il giocatore più amato oltremanica, dotato di doppia laurea honoris causa attribuitegli dall’università di Guildford (è nato in Surrey e la contea natia doveva in qualche modo sdebitarsi) e da quella della Northumbria, e di un titolo (Order of British Empire) concessogli da Elisabetta II dopo il trionfo consumato a Sydney.

“Biondo era, e di gentile aspetto”, dice Dante di Manfredi. Per Jonny (nome per esteso, Jonathan) necessario aggiungere anche l’aggettivo dell’ardimento. Forse il più grande calciatore di punizioni, di trasformazioni, di drop, ma anche un meraviglioso lottatore, un collezionista di placcaggi duri. In un rugby di colossi ricoperti di muscolature cresciute troppo in fretta, Wilkinson può mettere davanti al metro e sulla bilancia misure normali (1,78 per 88), per confermare che la testa – e quel che c’è dentro – ha ancora il suo peso, la sua importanza, il suo primato. E in questo caso è bene ricorrere alle cifre: con lui in campo, l’Inghilterra ha vinto il 74% delle partite giocate, senza di lui il 47%. Si gioca in 15, si vince in 15, ma se c’è lui, è meglio. Lo hanno capito anche a Tolone, nel suo lungo meriggio. Ora, farewell, perché - come dicono i francesi - tutto passa. Senza esser dimenticato.

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