Pantani era un dio, e altre verità
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Pantani era un dio, e altre verità

Per raccontare il vero Pirata, Marco Pastonesi ha raccolto le testimonianze di chi gli stava vicino nel mondo della bici. E qui ci svela cos'ha scoperto

di Sergio Meda / sportivamentemag.it

A dieci anni dalla tragica scomparsa, che ancora non vede risposte se non di comodo (di Marco Pantani non pochi dicono che è stato... suicidato), Marco Pastonesi, giornalista e grande appassionato di ciclismo, si è proposto di conoscere - o meglio, riconoscere - Pantani attraverso i luoghi a lui più cari, la sua Romagna e le grandi salite in cui liberava il suo talento, ma soprattutto attraverso i ricordi e i pensieri della sua gente. Non i familiari ma coloro che gli sono stati vicini in bici, dai direttori sportivi ai gregari, che gli volevano bene a dispetto del suo maltrattarli, a volte, o delle sue stramberie: Pantani poteva decidere di allenarsi per un paio d’ore, ma anche di stare in sella sino a sera, senza preavviso.
Il volume “Pantani era un dio ” (66thand2nd editore, 16 euro) non è un’operazione di nostalgia e tantomeno un supplemento di indagine su una vicenda scottante. Diciamo che è un’operazione di scrupolosa ricerca, di ottimo giornalismo, quasi una tesi di laurea che l’autore affronta quasi di malavoglia, prendendo le distanze dal personaggio e cercando l’uomo, tanto che confessa nell’incipit della presentazione: “Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano, nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una. Carriere immacolate, curriculum integri, stagioni intatte. Gregari che compiono il loro dovere dal primo chilometro...”.

E allora, Pastonesi, perché? Non ci dica che il libro è stato imposto dalla Casa editrice e lei, per evitare ogni rischio celebrativo, ha giocato a sparigliare, come a scopa.
"La sollecitazione è venuta dall’editore ma ho fatto a modo mio, tanto che ho detto che ci avrei provato, ma non garantivo il risultato. Nemmeno ho voluto l’anticipo, come si usa, per potermi muovere senza remore, volevo capire se ci fosse qualcosa che valesse la pena di conoscere e riferire, non l’ennesima biografia, non un supplemento di indagine, non l’inchiesta su retroscena a questo punto insondati. I dubbi sulla morte di Pantani li ha messi a fuoco tutti Philippe Brunel, il collega de L’Equipe, nel suo libro inchiesta molto ben fatto".

Pantani l’affascinava, dica la verità.
"Mi attirava proprio perché lo conoscevo poco e male. Professionalmente l’avevo frequentato solo dopo il grande torto che lui diceva di aver subìto. Non ero in familiarità come alcuni colleghi che si dichiaravano suoi intimi. Per me Pantani è sempre stato un tipo restio a esporsi, un timido, figuriamoci dopo Madonna di Campiglio, quando avevamo il tempo di una domanda o poco più, in conferenza stampa, con lui che dava risposte di comodo, quelle che io chiamo prestampate. Non si fidava più dei giornalisti, in realtà non si fidava più di nessuno. Era un uomo solo, un uomo tormentato".

Eppure il titolo del libro, “Pantani era un dio”, è quasi uno schierarsi.
"È un titolo forte, di grande impatto, che non ho scelto io, ma risponde a una frase realmente pronunciata da un paio di colleghi di Pantani, un gregario e un professionista francese, che lo ha ammirato da lontano e fin da bambino. Per John Gadret, il francese, Pantani era un dio, come per altri è stato uno che li ha trasportati in un dimensione di sogno. Le salite e chi le affronta con quel piglio portano al soprannaturale perché i comuni mortali le subiscono, le montagne solitamente li respingono".

In compenso lei non fa sconti a Pantani, riferisce dei dati di ematocrito ben sopra il livello consentito, parla della cocaina come di un piano inclinato. Ne scrive senza prendere posizione.
"Per mestiere e per indole non devo giudicare nessuno. Mi sono rifatto, da giornalista, ai dati di realtà, emersi durante le inchieste giudiziarie. Quando mamma Tonina mi ha chiesto, durante un incontro pubblico, perché avessi cercato lo scoop, le ho risposto che non avevo svelato alcun segreto, mi sono limitato a quanto è agli atti. Chiunque può leggerli a modo suo, farsi un’idea di Pantani. Era l’intento del libro. Ognuno vi può trovare una sua verità".

Quanto tempo le ha comportato la ricerca e poi la stesura del libro?
"Sei mesi fra tutto, a partire dal luglio scorso. Ho avuto la fortuna di essere ben visto dagli 'ultimi del gruppo' e non ho dovuto vincere alcuna ritrosia a parlare di Marco. I suoi gregari, ma più in generale tutti gli interpellati, una quarantina, lo ammiravano. Marco era benvoluto da tutti perché non si atteggiava. Era lui e basta".

Il Carpegna è una scoperta, diventa la montagna simbolo di Marco ben più del Mortirolo o del Galibier.
"Era il luogo che incarnava l’idea di salita per lui. Pantani non andava in ricognizione delle altre, perché il Carpegna gli aveva chiarito, insegnato tutto. Era casa sua. Io l’ho percorso in bici, come un pellegrinaggio, e ho capito che cosa rappresentasse per lui, aiutato dalle riflessioni di quanti gli stavano a fianco, in bici e in ammiraglia".

C’è tanta Romagna nel libro. Luoghi, persone, saggezze e motti.
"La Romagna e l’universo di Marco Pantani, è l’unico posto in cui pensava che lo capissero. Un rifugio vero, un luogo dove si sentiva protetto".

Una sorpresa, fra le molte?
"Il rapporto con gli Amici, nel senso della famiglia ciclistica che organizza una serie di gare per professionisti. Adriano, il papà, mi ha raccontato che nel 2003 alle due di notte Marco lo svegliò chiedendogli se poteva venire a lavorare da lui, nell’organizzazione. Lui gli rispose che se si accontentava, loro erano piccoli, un posto ci sarebbe sempre stato. La figlia, Elisa, è stata vicina a Marco negli ultimi tempi, da amica. Avevano similitudini, ma nemmeno lei è riuscita a scacciare i fantasmi che lo tormentavano".

Sergio Meda, autore di questo articolo, è direttore del sito Sportivamentemag, magazine on line che tutela lo sport e le sue regole, proponendo  storie e riflessioni.

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