Nelson Mandela, l'Invictus
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Nelson Mandela, l'Invictus

Nel 1995 "Madiba" spronò gli Springboks alla vittoria nel Mondiale di rugby come primo passo per avvicinare bianchi e neri - La maledizione di Ramsey

di Sergio Meda Sportivamentemag

"Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Di unire la gente. Parla una lingua che tutti capiscono. Lo sport può creare la speranza laddove prima c’era solo disperazione". Quattro frasi che si rincorrono a definire un concetto: una specie di testamento spirituale di un uomo davvero speciale, che non ha mai tifato contro. Un autentico paladino della giustizia in un Paese dove i bianchi la calpestavano. Nelson Rolihlahla Mandela, “Madiba” per tutti i sudafricani di colore (e oggi anche per gli altri, i bianchi e i biancastri, che hanno imparato a capirlo), non sapeva di sport per averlo praticato in gioventù e nemmeno per averne dissertato nelle aule. Non certo a scuola, non in università. Avvocato, gli erano familiari le sole aule dei tribunali del suo Paese dove la giustizia cambiava toni e atteggiamenti in funzione del colore della pelle, in nome della segregazione, dell’apartheid. Guai ai neri che avevano leso i diritti scelti dai bianchi, illusi di essere loro pari. Guai ai "sovversivi" come lui.

Mandela sapeva di sport per averne ragionato a lungo con se stesso, tra le mura di una cella di tre metri per tre a Robben Island, dove il tempo non scorreva mai, da detenuto n° 46664. Ventitre anni di carcere possono volar via solo se si è capaci di voltare pagina, di dimenticare, aiutato in questo dalle tonalità di una bella poesia di William Ernest Henley dal titolo "Invictus". Versi di un autore ottocentesco costretto in un letto di ospedale recitati da “Madiba” a bassa voce in una cella disadorna. Come una preghiera.

Una volta restituito alla libertà, Nelson Mandela pensò di ridarla per intero al suo popolo, di togliere il filo spinato che divideva il cuore degli afrikaneer, i bianchi fautori dell’apartheid, da quello dei suoi fratelli neri. Occorreva un gesto di pacificazione, dopo che il Paese lo aveva nominato presidente, non bastava il Nobel per la Pace che ha valore simbolico, conta molto di meno.

"Madiba" decise allora, nel 1995, che lo sport avrebbe fatto al caso, in nome di una bandiera comune e di un comune sentire. Approfittò dei Mondiali di rugby in Sudafrica per fare di due Paesi distinti uno solo. "Invictus", il film di Clint Eastwood tratto dal bel libro "Ama il tuo nemico" di John Carlin, sancisce Mandela (interpretato da Morgan Freeman) eroe senza sconfitte, racconta il suo cauto avvicinarsi agli Springboks, la nazionale sudafricana tornata in gioco dopo dieci anni di allontanamento da ogni competizione internazionale proprio a causa dell'apartheid, e il suo accompagnarla verso la finale, per una sfida all’impossibile nel nome di un'idea vincente che affascinò per primo il capitano della squadra François Pienaar (Matt Damon sul grande schermo).

Lavorò senza dare nell’occhio, con discrezione, tenendosi il colpo di scena per il giorno della finale contro gli All Blacks, quando Mandela si presentò in tribuna con la maglia degli Springboks per fare di quello stadio il sedicesimo giocatore, senza distinzione di pelle, di credo, di censo. Johannesburg solennizzò la nascita di una grande comunità, aperta, globale e multiculturale. Quel giorno, il 24 giugno 1995, il Sudafrica si aprì a nuova vita. E vinse il Campionato del Mondo di rugby con un ormai epico 15-12 sulla Nuova Zelanda.

ps La città di Firenze ha reso sportivamente omaggio nel 2004 a Nelson Mandela intitolandogli il Palazzo dello Sport, ribattezzato "Nelson Mandela Forum". E sin qui tutto bene. Non condivisibile invece la traduzione di "Invictus" ne "L'invincibile" per l'uscita del film nelle sale italiane. Il termine è latino e significa invitto, cioè "mai vinto". Ben diverso da quell'invincibile che sa tanto di fumetto.

Sergio Meda, autore di questo articolo, è direttore del sito Sportivamentemag, magazine on line che tutela lo sport e le sue regole, proponendo  storie e riflessioni.  

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