Milan, un declino annunciato (e giusto)
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Milan, un declino annunciato (e giusto)

Il mercato di oggi segna la fine di un modo italiano di gestire il calcio. E dopo?

Su Milanello gli elicotteri non volano più. Non è certo affare nostro suggerire cori o tazebao alle tifoserie avversarie. Ma è l’associazione di idee più banale e immediata che salta in mente, essendo abbastanza in là con gli anni da ricordare come fosse ieri lo sbarco del primo Milan stellare, accompagnato dalla Cavalcata delle Walkirie.

Qualcosa che non si era visto mai, proprio come la squadra che da quella scenografia molto cinematografica e molto kitsch, sarebbe nata. Cioè qualcosa di rivoluzionario, anche se certi detrattori di Arrigo Sacchi non riusciranno mai ad ammetterlo: mentalità diversa, quella di un proprietario immaginifico che, certo, ha spesso usato il Milan e quello che rappresentava e vinceva come cavallo di Troia per altri scopi. Ma non sarebbe il caso qui di buttarla in politica.

Parliamo di calcio e di un Diavolo che da giovedì 12 luglio non esiste più. Perché è vero: c’è stato Schevchenko, poi c’è stato Kakà, erano venti che giravano, Ma c’era anche un corpo di pretoriani che conoscevano la strada verso certe conquiste e c’erano campioni nuovi con altri cannoni per conquistarle. Poi però c’è stata anche la storia politica di questo Paese e ci sono state faccende economiche, c’è stato il Lodo Mondadori e affari di famiglia.

Berlusconi e Moratti sono due racconti che non hanno paragoni nell’Europa del calcio di adesso. Sono ricchi, ma non sono emiri; sono milanesi che hanno reso enormi le squadre della loro città, ma non hanno alle spalle un popolo che versa denaro come a Barcellona o a Madrid. Sono padroni-mecenati di un’altra epoca che adesso non esiste più. E in parallelo hanno deciso di esistere un po’ meno anche loro, costretti a spendere da una opinione pubblica rumorosa quanto irrilevante sul piano ecomonico.

Il Milan e l’Inter cambiano pelle, cambiano stile di vita. E in questo non c’è nulla di male a patto di non raccontare bugie: si vende per fare cassa, si risparmia su ingaggi che non possono più esistere nel calcio italiano, si lasciano andare via vecchi campioni che sembravano destinati a timbrare il cartellino fino alla pensione minima, si va per un’altra strada che ancora chiarissima non è. Questo bisognerebbe dire chiaro e tondo. Cosa che nessuno farà direttamente. Vedrete che entrambe compreranno specchietti per le allodole (scommettiamo che per il Milan sarà Kakà?) e si autoproclameranno candidate per titoli vari. Ma la gente non chiede questo: vorrebbe solo freschezza di idee in cambio di pazienza. Si può aspettare per tornare a vincere e nel frattempo divertirsi a guardare crescere qualcosa di nuovo. Al Milan lo hanno fatto per anni, passando per Baresi, Battistini, Evani, Maldini e accanto a loro inglesi senza arte né parte, brocchi sudamericani, vecchi lupi belgi.

A un bambino che scrive “Il Milan non esiste più senza Ibra e Thiago”, rispondiamo in modo probabilmente troppo romantico che giocatori, allenatori, perfino presidenti passano, la maglia e i colori no. Certo, negli anni del tutto e subito sono concetti un po’ difficili da far passare. Pazienza, impareranno. E con loro quei bambini mai del tutto cresciuti che sono i tifosi. Questa estate ci lascia un vedretto solo: la moderna Juventus che guarda tutti dall’alto del suo stadio e delle sue politiche normalmente al passo con i tempi, è di nuovo la padrona del calcio italiano. Dietro di lei tutti gli altri.

Il passato ritorna, certe gerarchie anche.

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Carlo Genta