Miccoli: un ragazzone stupido cresciuto a pane, talento e miliardi
Lifestyle

Miccoli: un ragazzone stupido cresciuto a pane, talento e miliardi

Lo scrittore e tifoso palermitano, Davide Enia parla del caso Miccoli

Adesso è la sua testa a sembrare un pallone tagliato. «Un ragazzone cresciuto a pane, talento e miliardi». Nel calcio solo alle lacrime non si danno pagelle e voti, neppure a quelle di Fabrizio Miccoli, ex capitano del Palermo, caduto nel fango dove l’erba è la più sporca, così vicina alla mafia e una frase pronunciata al telefono la sua finale sbagliata.

Questa volta a fischiare è sempre un uomo vestito di nero, ma senza pantaloncini, è la giustizia che gli ha chiesto conto delle sue frequentazioni con il figlio di un boss, Mauro Lauricella, e di una frase pronunciata al telefono: «Ci vediamo sotto l’albero di quel fango di Falcone» che lo manda nello spogliatoio della condanna senza appello.

Ora la curva è tutta contro in questa città che lo scrittore e drammaturgo Davide Enia ha elevato a elegia con gli spettacoli Rembò, Italia-Brasile 3 a 2: «Era estate e mio padre disse appena facete rumore vi taglio u’ pallone. Lo taglio e divenne una pianta secca che tu speri che ricresca, ma ad agosto non piove e finisce nel paradiso dei palloni tagliati».

Rimane questo pianto in diretta, quello di Miccoli, durante una conferenza stampa, che in città non convince nessuno. Forse, meglio così.

«Vedete, la traccia positiva di questa vicenda è l’unanime coro di disapprovazione della tifoseria e della città che ci rivela come la memoria di Falcone sia un luogo sacro» dice Enia. «Da capitano, com’ era Miccoli, non puoi permetterti la spensieratezza. Avrebbe potuto, per paradosso, presentarsi in conferenza stampa e dire: Non mi pento. Ma non far finta di non sapere in quale città ti trovi. E però non giudico le lacrime o il pentimento. Non sono nessuno per non crederci. Solo da ora in avanti si potrà capire se il pentimento di Miccoli sia vero».

Ma lo rinnega Palermo, questo campione che era bandiera salentina trapiantata nell’isola, e pure il pianto di una conferenza non basta a restituirgli la redenzione che lo porta via dalla Sicilia, lontano per sempre forse da un campo di calcio. «L’allontanamento da Palermo era il minimo. Delle accuse più gravi, quella di aver prestato delle sim al figlio del boss, mi sembra la peggiore». Eppure sempre il calcio è andato a braccetto con la malavita…

«E’ un ragazzo cresciuto a pane, talento e miliardi. Queste tre cose, prive di sagacia e studio producono una persona stupida. Ma è anche tutta una generazione cresciuta con questo mito e che cerca di adeguarsi al contesto. Solo che non puoi permetterti, a Palermo, una mancanza di ponderazione, tanto più se giochi le partite antimafia».

Essersi pentito non basta? «Si è reso conto delle accuse che gli vengono mosse, accuse che fanno tremare le gambe. Eppure di questa vicenda, di una cosa andrebbe dato atto. Proprio io che ho criticato il presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, devo testimoniare che questo friulano non ha mai avuto collusioni con la mafia». Così come colpisce la mancata “elaborazione del lutto”.

«Pensate, i palermitani e l’intera curva hanno sconfessato il giocatore più amato del Palermo, più amato dell’altro capitano Eugenio Corini. La sua colpa è quella di non essersi fatto domande. Non avere studiato la realtà. Pure uno degli scandali che stanno coinvolgendo la Regione e i politici siciliani e che vede protagonista un faccendiere, Faustino Giacchetto, tocca il calcio. Per ottenere appalti questo Giacchetto distribuiva biglietti per lo stadio. Tutto ruota attorno ai soldi». Calcio e malavita… «Il calcio è adesso il luogo del potere. Negli anni  Sessanta era: mignotte, cocaina e cavalli. Negli anni Ottanta: mignotte, cocaina e cavalli. Oggi è mignotte, cocaina e stadio. Si è spostato solo lo sport». Restano le scuse di chi «voleva piacere a tutti» e che adesso non piace neppure a se stesso. La parabola di un calciatore lanciata nel paradiso dei palloni tagliati...

Twitter: @carusocarmelo

I più letti

avatar-icon

Carmelo Caruso