A lezione di freeride (e di vita) dai fenomeni dello sci fuoripista
Swatch / photographer
Lifestyle

A lezione di freeride (e di vita) dai fenomeni dello sci fuoripista

Markus Eder e Richard Permin, tra i protagonisti del film "Days of my Youth", raccontano il mondo dei freerider e la sua filosofia

Là dove l’aria si fa rarefatta, quando il silenzio della natura regna sovrano sul rumore della vita di città, e la montagna ti fa sentire “poco più di un pezzo di carne” (cit.), nelle mani di chissà quale oscuro destino, inizia l’avventura del freeride. Lassù in alto potete trovare Markus Eder e Richard permin, fenomeni dello sci in neve fresca e protagonisti del film – prodotto da Red Bull Media House e recentemente in anteprima europea a Milano – “Days of my youth”, un’ora e poco di più di racconto sul mondo del fuoripista e sulla sua filosofia di vita. 

Sì perché il freeride non è davvero uno sport come gli altri, e soprattutto non è adatto a tutti. Servono sensibilità, quella che si acquisisce indossando, anzi vivendo sugli sci fin dalla tenera età – 3 anni per Richard, addirittura da 2 per Markus –, ma anche coraggio e un grande senso del rischio, che poi vuol dire essere capaci di gestire la paura che ti secca la gola quando abbassi lo sguardo dalla cima di un monte, a 3 mila metri di altezza.  “Se smetti di avere paura vuol dire che c’è qualcosa che non va – dice Permin nel film, mentre si appresta a discendere le montagne dell’Alaska – quello che conta sono le sensazioni che provi quando l’elicottero ti cala sulla vetta. Se provi paura è tutto è ok. Se senti una strana sensazione invece allora è meglio che lasci perdere”.

Tutta questione di sensazioni quindi, e di lasciarsi guidare dall’istinto. La maggior parte dei freerider ha iniziato con le gare di sci alpino prima di “sentire” che qualcosa non andava. “A 6 anni mi hanno fatto indossare una pettorina e ho cominciato a gareggiare, ma non amavo l'eccessiva competizione che si creava tra gli atleti – spiega Eder che è nato a Bruneck, una piccola cittadina dell’Alto Adige che vive di neve e sci – così ho deciso di acquistare il mio primo paio di sci da freestyle e ho iniziato ad esercitarmi con gli amici. Ci muovevamo in auto, dormendo un po’ dove capitava pur di cercare i percorsi fuoripista migliori. A pensarci adesso, sembra davvero una vita fa”.

Con la nascita del Freeride World Tour, organizzato proprio da Swatch, il professionismo è entrato nelle vite dei riders, che però giurano di non aver perso la passione e il gusto della sfida. “Fino a non molti anni fa dovevo risparmiare per comprare l’attrezzatura – racconta Permin – oggi sono Milano a presentare il film e un orologio da me disegnato (in collaborazione con i designer di Swatch). E’ davvero incredibile”.  “Ci sentiamo dei privilegiati – continua Markus, che per anni si è allenato in solitaria prima di venire scoperto dai selezionatori del circuito grazie a un video su internet– non perché guadagniamo tanto ma perché possiamo vivere facendo quello che amiamo, e soprattutto nel modo che amiamo”.

Lo stile di vita del freeride è l’aspetto principale – insieme all’abilità e ai trick di questi fenomenali atleti – che il film tenta di raccontare e spiegare. Il filo di Arianna della narrazione è la scena di un anziano rider, che ricorda i momenti migliori della sua giovinezza, che poi sono le imprese di Markus e soci nel discendere le pareti delle montagne più famose del mondo, tra cui quelle del Colorado, dell’Alaska dino alla Cordillera Blanca del Perù. 

“Se pensi che fare soldi sia la cosa più importante, spenderai la tua vita a tentare di guadagnare facendo cose che non ti piacciono – sussurra la voce narrante di Alan Watts – è meglio vivere una vita breve facendo le cose che amiamo fare, piuttosto che vivere a lungo da miserabili. Per farlo, devi chiederti “cosa desidero davvero?””. Poi i freeriders si buttano giù dalla montagna, e cala il silenzio in sala.  

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Teobaldo Semoli