"La Nba? Se non cambia, rischia il collasso"
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"La Nba? Se non cambia, rischia il collasso"

E' l'opinione di Francesco Cuzzolin, preparatore atletico della Nazionale italiana di pallacanestro. Per lui, ex trainer dei Toronto Raptors, "è necessario ridurre il numero delle partite"

La Nba ha perso un altro protagonista. Russell Westbrook, guardia degli Oklahoma City Thunder, oro alle Olimpiadi di Londra, si è infortunato nella seconda partita della serie contro gli Houston Rockets. La diagnosi: rottura del menisco laterale destro. Stagione finita, addio playoff. Soltanto qualche giorno prima era stato il turno di Kobe Bryant, una delle stelle più luminose della pallacanestro mondiale. Per il fuoriclasse 34enne dei Lakers, che dovrà rimettersi dalla rottura del tendine d'Achille, si parla di un anno di stop. Tanti auguri e alla prossima.

Ma cosa succede in Nba? Possibile che questi infortuni siano soltanto frutto del caso? Ne abbiamo parlato con Francesco Cuzzolin, il primo preparatore atletico europeo a lavorare nel campionato più bello del mondo. Cuzzolin ha infatti prestato servizio nei Toronto Raptors di Chris Bosh. Ma pure nella Nazionale russa, alla Benetton Treviso e alla Virtus Bologna. Oggi allena gli azzurri di Simone Pianigiani. Insomma, un vero e proprio esperto in materia di prevenzione degli infortuni.  

Prima Gallinari, poi Bryant. Quindi, Russell Westbrook. La Nba perde i pezzi, tutto normale?

No, tutto normale no. Credo sia il momento di fare una riflessione per capire le ragioni di questi infortuni. Anche perché perdere campioni di questo calibro non fa bene allo show. E' opportuno pensare a come sono gestiti i calendari, quindi al numero delle partite, e ai tanti, tantissimi viaggi che i giocatori devono sopportare durante la stagione.

Sì, pure al turn over, che in Nba non è gradito per diverse ragioni. Qualcosa va cambiato per il bene dello spettacolo. E chiaro, anche per la salute dei protagonisti. Basta ricordare cosa è successo a inizio stagione agli Spurs. Il tecnico di San Antonio ha pensato di far riposare a turno i grandi campioni ed è scoppiato un caso. Perché la gente che compra i biglietti vuole vedere in campo le stelle. Altrimenti, si lamenta. Altro che turn over. Una scelta del tutto logica e sensata, ma il business dice che non si può fare. E da quelle parti, il business viene messo davanti a tutto.

Nel corso della stagione regolare, ogni squadra di Nba gioca 82 partite. Erano 72 fino a qualche anno fa, poi sono aumentate. Come fanno i giocatori a reggere questi ritmi?

Alla fine, si gioca soltanto. Guardi cosa è successo lo scorso anno, l'anno dello sciopero dei giocatori. Il campionato è iniziato con un mese e più di ritardo e le partite da 82 sono diventate una sessantina. Bene, l'incidenza degli infortuni è stata massacrante per tutti i club, che ne hanno avuto un danno di proporzioni allarmanti. La politica degli introiti sempre e comunque è arrivata a mio parere al capolinea. Se non si interviene in qualche modo, la Nba continuerà ad avere problemi di questo tipo.

Già, perché se la stella si fa male e salta le partite più calde della stagione, il risultato è lo stesso: meno pubblico pagante e tanti mugugni da parte dei proprietari...

Proprio così. Quando manca il giocatore leader della squadra, la logica dei proprietari va a farsi benedire. Per questo, bisogna trovare un compromesso che consenta di salvaguardare gli interessi legittimi dei club e quelli, altrettanto necessari, dei giocatori. Vero, lo sport professionistico è business a tutti gli effetti. Ma si tratta comunque di avere a che fare con risorse umane, che come tali hanno bisogno di avere degli spazi per recuperare. Altrimenti, il risultato sportivo viene influenzato. Puoi investire tantissimo sul parco giocatori, ma quando capitano infortuni a catena, c'è poco da stare allegri. Ai Lakers quest'anno è andata così e mi pare che non stiano facendo i salti di gioia...

Per i giocatori europei della Nba, intanto, doppio lavoro...

Sì, perché oltre a sostenere i carichi delle tante gare nel campionato più difficile al mondo devono rispondere alla chiamata delle rappresentative nazionali, che spesso li impegnano anche durante l'estate, quando la maggior parte dei cestisti Usa si gode le vacanze...

La Nba è un mondo a parte. Anche a proposito di preparazione atletica. Quali scelte ha dovuto fare quando ha lavorato con i Toronto Raptors?

Le scelte sono poche, perché il tempo a disposizione è davvero pochissimo. Si lavora tra un viaggio e l'altro e ci si allena quasi sempre durante le partite. Ci si concentra più sulla qualità, che sulla quantità, perché altro non si può fare. Ma allo stesso tempo si deve tenere in forma i giocatori meno impegnati, perché la stagione è lunga e non ci si può permettere di lasciare indietro chi gioca di meno. Si è sempre in allerta. In ogni caso, c'è anche chi sta peggio. Ho avuto la fortuna di collaborare anche con i Chicago Bulls e i Cleveland Cavaliers. Bene, loro sono addirittura travolti dagli impegni. E allora cosa si fa? Quello che si può, punto e basta. Si naviga a vista e certo non è la migliore soluzione per preservare i giocatori dagli infortuni.

Nel corso della sua esperienza negli Usa, quali giocatori l'hanno più colpita per forza fisica e capacità di reazione?

Kobe Bryant. Fa paura. E' vero che a un certo livello il talento la fa da padrone, ma è altrettanto vero che senza la costanza e l'applicazione negli allenamenti anche il talento non può fare più di tanto. Ecco, Bryant è un professionista a tutto tondo. E' un giocatore straordinario anche perché non hai smesso di allenarsi con lo scrupolo dei primi anni. Lo vedi allenarsi e capisci perché è diventato così forte.

Quanto sono distanti gli azzurri della Nazionale dalle prestazioni atletiche dei loro colleghi d'oltreoceano? Insomma, oltre il talento e la classe, c'è di più?

Ho avuto modo di lavorare anche con altre nazionali e posso dirle che i giocatori europei si stanno avvicinando moltissimo ai colleghi della Nba, sia sotto il profilo atletico sia per capacità tecniche. Anzi. In Europa non vinci nulla se non hai un gioco di squadra, mentre negli Usa puoi contare un po' di più sulla classe dei singoli. Certo, sono due mondi distanti, ma sempre più vicini. La grande differenza? In Nba, i giocatori seguono un percorso di crescita e miglioramento che dura per tutta la carriera. In Europa, spesso si siedono sugli allori e raggiunto un certo livello vivono di rendita. Cambiasse anche questo aspetto, potremmo fare un passo in più, ne sono convinto.

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Dario Pelizzari