Italia ed Nba, l'oceano è sempre più largo
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Italia ed Nba, l'oceano è sempre più largo

L'abisso tra le finali nostrane e quelle Usa tra tubo catodico e Hd

Dall’America abbiamo portato via molto. Scarpe, jeans e camicie, con o senza il cavallino sopra: moto, auto, anche fabbriche di auto, di recente. Poi libri, musica, idee rivoluzionarie o semplicemente trendy. Abbiamo restituito un po’ di stile, la cultura per un modo di nutrirsi più raffinato, la nostra proverbiale ospitalità che non è mai gratis, il divertimento per le mille contraddizioni italiane, che invece sono gratis. Almeno per loro. A noi costano sempre carissime.

Agli americani abbiamo preso anche uno dei loro tre sport nazionali. Gli altri due troppo cerebrali, o lenti, o violenti, glie li abbiamo lasciati volentieri.

Abbiamo provato a ripagare col solito ritardo e a rate con tre giocatori e il nostro allenatore di basket più bravo che è finito in seconda fila sulla panchina di una versione perdente dei Los Angeles Lakers. Pare che Ettore Messina ne abbia visto già abbastanza e a una panchina con vista sull’Oceano ne preferisce una a Gorky Park (Cska Mosca), dove farà anche freddo ma almeno tornerà ad essere una superstar.

Sempre con calma e le dovute rateizzazioni, insieme al gioco del basket, abbiamo importato certe regole diverse, dall’adrenalina dei playoff, al tiro che vale tre (ma avvicinandolo al canestro, perché così ci sembra di essere più bravi), ai tre arbitri, al progressivo ridursi della durata delle azioni di gioco (24” di qua come di là), allo spezzettamento delle partite in quattro semi-tempi, ma anche qui i nostri son più corti di due minuti l’uno, così si risparmia un po’ di fatica.

Abbiamo portato via tutto questo, dimenticando però di infilarlo nella scatola. O forse pensando, per fare i furbi ancora una volta, che fosse sufficiente uno scatolone di cartone legato con il nastro marroncino. Peccato che la forma, la scatola, siano sostanza. Siamo in tempo di finali per il titolo, noi italiani come loro e c’è la differenza che passa tra una di quelle vecchie tv coi rotelloni e le antenne a baffo in cima e uno schermo ultraslim di ultima generazione. Apposta vi parliamo di televisioni, perché lì guardiamo quasi in contemporanea partite che sembrano uscite da epoche diverse.

Chi vi scrive vede basket in tv da quasi quarat’anni: vi assicuro che l’effetto bulgaro delle immagini Rai, le luci fioche, i contorni sfumati come se sul campo ci fosse sempre un po’ di nebbia, è una di quelle cose che ti dà l’impressione della stop motion del tempo. Il commento invece no: lì il peggioramento è stato inesorabile (parliamo sempre di Rai), passando dal genio sarcastico di Aldo Giordani a ugole sempre più tristi, perfino quando tentano di urlare a sproposito. Noi la finale tra Siena e Milano, che pure è in teoria la più interessante e incerta dell’ultimo lustro (anche se dai primi due atti non si direbbe), l’abbiamo con astuzia infilata sotto il tappeto degli Europei di calcio ed è già quasi miracoloso –  sospettiamo casuale – che non ci sia coincidenza di date con le partite dell’Italia del pallone. Strano, non ci sembra spazzatura sportiva. Poi clicchi l’icona che sta proprio qui a fianco, vi invito a farlo, e che presenta la finale che va a cominciare tra Oklahoma City per la prima volta nella vita e Miami del finora perdentone LeBron James e con tutta la disillusione del caso capisci molte cose. Compreso il fatto, chiedere in giro per credere, che i nostri ragazzini del basket italiano, di Siena e di Milano se ne fanno un gran paio di baffi.

Per loro il basket è solo roba d’America, facce, bocche, slang, colori e canestri. Il biancoenero lo lasciano ai papà nostalgici. E hanno cento volte ragione.

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Carlo Genta