Il ricordo di Trapattoni a 30 anni dalla strage dell'Heysel
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Il ricordo di Trapattoni a 30 anni dalla strage dell'Heysel
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Il ricordo di Trapattoni a 30 anni dalla strage dell'Heysel

L'allora allenatore della Juventus rivive quella surreale finale di Coppa dei Campioni. E riflette su come ha cambiato (e non) il calcio

Trent'anni di dolore, rimpianti, accuse e risentimenti. Il 29 maggio del 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles si sarebbe dovuta giocare una partita di calcio. Meglio, La partita di calcio. In campo, Juventus e Liverpool. Sullo sfondo, la finale della Coppa dei campioni. Sarebbe dovuta essere una serata di festa, è stato un massacro. Trentanove persone morirono schiacciate nel tentativo di guadagnare la salvezza. E seicento persone portarono sul corpo i segni di quella tragedia. Sono passati trent'anni, pare ieri. Nella memoria di chi c'era, il nome Heysel evoca ancora brividi di sgomento. E' così anche per Giovanni Trapattoni, il “Trap”, che di quella Juve era il condottiero inarrestabile. La sua, una confessione densa di rimandi.

“Sono ricordi che non puoi cancellare dalla memoria - spiega l'ex tecnico bianconero - E' sufficiente che se ne parli per qualche istante per farmi tornare in mente tutto quello che abbiamo vissuto. Quello dell'Heysel è un ricordo nitido e insieme spaventoso. Ci tennero chiusi nello spogliatoio per un'ora, forse più. Sentivamo le sirene delle ambulanze, ma non sapevamo che fossero morte delle persone. Soltanto la sera in albergo ci rendemmo conto di quanto era accaduto guardando le immagini in tv. Ma nello spogliatoio le informazioni erano poche e confuse. Di una cosa eravamo certi, che la partita non si poteva giocare, non c'erano le condizioni per disputarla. Poi, il delegato Uefa venne da me e mi disse: 'Dobbiamo giocarla per impedire che le cose peggiorino'. Siete pazzi, risposi, come è possibile giocare in una situazione del genere? Sa quale fu la sua risposta? 'Ci dica lei cosa dobbiamo fare'. Guardai i ragazzi e prendemmo insieme la decisione di scendere in campo. Il pubblico cominciò a prendere posto e la gara iniziò”.

Zibì Boniek non ha mai sentito sua quella coppa.
“La partita fu giocata più che regolarmente. In tanti hanno voluto speculare sul rigore concesso a Boniek, ma di errori così se ne sono visti tanti, ci poteva stare. Ovviamente non abbiamo festeggiato in campo. Era una giornata triste per tutti”.

A distanza di 30 anni quali sentimenti prova pensando a quel giorno?
“Rabbia, delusione, ma soprattutto sgomento. Eravamo felicissimi di giocarci una finale di Coppa dei campioni. Lo erano i giocatori e lo ero anch'io. Avevo già vinto il trofeo da calciatore (ndr, due volte, con la maglia del Milan), ma non avevo mai provato la gioia di vincerla da allenatore. E' tutto passato in quella giornata maledetta. Tra le sirene delle ambulanze e il dolore per quanto era successo. Sì, ammetto di avere avuto paura. Non ci sentimmo sicuri e tranquilli fino a quando non raggiungemmo l'albergo. Ci caricarono su un pullman che pullman non era e ci scortarono fino all'arrivo. Altro che paura, non sapevamo cosa fare. Era una folla incontrollata, poteva succedere qualsiasi cosa”.

Nel tempo, si è detto e scritto di tutto sulle dinamiche di quanto è accaduto. Su cosa crede che non sia stata fatta la necessaria chiarezza?
“Era la prima volta che succedeva una cosa del genere. Si disse che la responsabilità della tragedia fosse dell'Uefa, che aveva scelto per ospitare la finale un impianto che non garantiva i necessari standard di sicurezza. E probabilmente è vero, ma chi poteva immaginare accadesse una simile tragedia? In moltissimi entrarono senza biglietto, come si poteva prevedere? Chi avrebbe dovuto controllare?”.

Le tragedie che nascono da responsabilità oggettive lasciano spesso un insegnamento. Cosa avremmo dovuto imparare dalla tragedia dell'Heysel?
“Nei Paesi che ho conosciuto da vicino, e parlo di Gran Bretagna e Germania, hanno un approccio molto severo nei confronti di chi crea disordini allo stadio. Le forze dell'ordine non ci vanno leggero. Se sbagli, ti prendono, ti impacchettano e ti mettono in galera, dove non esci dopo qualche ora. In Italia le cose vanno diversamente e non si capisce bene perché. Anche se è bene dire che alcune reazioni sono difficili da prevedere e controllare. Guardiamo cosa è successo qualche giorno fa al Palazzo di giustizia di Milano. Pur con tutti i controlli che hanno messo in atto dopo la sparatoria di aprile una persona è riuscita a entrare con un coltello e c'è mancato poco che riuscisse a uccidere un magistrato. Nonostante tutte le attenzioni, c'è sempre qualcosa che sfugge”.

Dunque, partita persa?
“Nel corso della mia carriera, ho inaugurato tanti club di tifosi in giro per il mondo. E devo ammettere che all'estero hanno un modo diverso di intendere lo sport. In Italia, è tutto più esasperato. C'è una tensione, un atteggiamento arrogante e scriteriato che a mio avviso altro non è che il riflesso della nostra società”.

Si dice, è l'esempio che fa la differenza. Anche in un campo da calcio. Secondo alcuni, l'esultanza dei giocatori della Roma dopo il derby vinto contro la Lazio è stata fuori misura. Lo pensa anche lei?
“Negli sport di squadra c'è una scarica di adrenalina che è difficilmente contenibile. Non si riesce sempre a controllare la gioia di chi ha raggiunto l'obiettivo che si era prefisso. E prima della gara serve a poco fare le raccomandazioni del caso. Perché al fischio finale spesso ognuno esulta d'istinto, senza riuscire a tenere a bada la propria carica agonistica”.

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I reparti speciali della polizia di fronte alla curva degli hooligans del Liverpool. Si facevano chiamare "head hunters", cacciatori di teste, per la violenza estrema che li caratterizzava.

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