Guadagnini (Fox Sports): “Ecco perché il nostro calcio ha perso”
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Guadagnini (Fox Sports): “Ecco perché il nostro calcio ha perso”

Chiusa la telenovela Tavecchio, archiviata la figuraccia brasiliana degli azzurri, rimandato alla prossima estate l’ennesimo scontro sui diritti televisivi, il calcio italiano sta per ripartire, con un ritardo rispetto ai campionati stranieri che non è solo di calendario, ma …Leggi tutto

Chiusa la telenovela Tavecchio, archiviata la figuraccia brasiliana degli azzurri, rimandato alla prossima estate l’ennesimo scontro sui diritti televisivi, il calcio italiano sta per ripartire, con un ritardo rispetto ai campionati stranieri che non è solo di calendario, ma soprattutto di appeal e redditività. E anche di semplice competitività sportiva, come dimostra l’uscita prematura del Napoli dal tabellone di Champions. Per averne conferma e uscire un po’ dai circoli asfittici e autoreferenziali del dibattito nostrano, basta chiedere a chi per professione segue il pallone con lenti esterofile: «Siamo tra i Paesi che incassano più soldi dalla pay tv, ma dalla vendita delle nostre partite all’estero ricaviamo poco più di un settimo degli inglesi: 10 anni fa eravamo alla pari. Basterebbe questo dato per descrivere come il nostro calcio abbia perso centralità» spiega a PanoramaFabio Guadagnini, amministratore delegato di Fox Sports Italia, la tv che nel nostro Paese trasmette (attraverso il bouquet satellitare di Sky e quello digitale di Mediaset Premium) i maggiori campionati europei.

Possiamo recuperare?

Sì, se torniamo a discutere di programmi e non di nomi o correnti. Rendendoci conto che il calcio è la quarta o quinta industria italiana per fatturato, ma che se non viene gestito con criteri manageriali farà fatica a tirarsi fuori da una crisi ormai strutturale.

Dobbiamo abituarci all’austerity, insomma?

Alla lunga potrebbe persino non bastare: siamo passati nel giro di pochi anni da leader riconosciuti di un mercato ristretto a comprimari, eppure continuiamo a vivere con drammatico distacco la realtà del momento e a vedere i nostri top player emigrare tutte le estati andando così a rafforzare l’offerta dei competitors.

In che senso?

Una delle squadre più popolari del nostro bouquet tra gli spettatori italiani è il Paris Saint-Germain: 9 dei suoi 11 titolari giocavano in serie A, non credo sia un caso. E l’effetto nostalgia funziona anche con il Chelsea di José Mourinho e con tutte le squadre dove giochino o allenino italiani.

Immagino però che le sfide più viste siano quelle tra Real Madrid e Barcellona.

Sì, anche se ormai sono sempre di più le gare nelle quali totalizziamo share paragonabili a quelli di un posticipo domenicale italiano. Ormai i campionati esteri non sono più solo un ripiego del tifoso in astinenza da gol, ma un prodotto di cui spesso l’appassionato di calcio non vuole fare a meno. Chiedete a un bimbo chi è il suo calciatore preferito e lui vi risponderà Ronaldo o Messi, non certo Balotelli o Destro. Per questo se l’Italia non recupera credibilità rischia grosso.

Provi a dare qualche consiglio al nuovo numero uno della Federcalcio Carlo Tavecchio, allora.

In realtà i consigli andrebbero girati alla Lega, perché è dalle società che dovrebbero arrivare le proposte per cambiare registro. La Figc dovrebbe limitarsi a gestire la nazionale e a fornire a club e Lega un quadro normativo il più possibile al passo coi tempi.

Siamo così in ritardo?

Ho la fortuna di potermi occupare tutti i giorni di Premier League, Bundesliga e Ligue1, campionati gestiti, così come le squadre che vi partecipano, alla stregua di aziende. Se vuole le faccio due esempi pratici.

Dica.

Le partite trasmesse in tv sono il primo biglietto da visita di un campionato. Solo che da noi le telecamere sono costrette a inquadrare manti erbosi spelacchiati quando non color marrone, spalti semivuoti e, me lo consenta, anche uno spettacolo il cui livello si è abbassato notevolmente. Che attrattiva può avere un prodotto del genere?

E il secondo esempio?

La redditività degli impianti. In Italia la Juventus, una delle sole due squadre di A a possedere lo stadio dove gioca (l’altra è il Sassuolo, ndr) si vanta – giustamente, intendiamoci – dei circa 30 milioni annui incassati dalle biglietterie. Peccato che al Barcellona per fatturare quella stessa cifra bastino le visite al museo del Camp Nou durante la settimana, negli stessi giorni in cui in Italia le strutture sono inaccessibili.

Tornando alla sua ricetta, dunque, il primo ingrediente sono gli stadi polifunzionali?

Polifunzionali e di proprietà: è l’unico modo per bilanciare i ricavi, che da noi sono troppo dipendenti dai diritti televisivi. È un peccato che la pay tv venga spesso demonizzata per ciò che fa quando in realtà, soprattutto in Italia, tiene in piedi da sola il sistema o quel che ne resta.

Altri antidoti al declino?

Puntare sui giovani, ma non a parole. Per riuscirci davvero l’unico modo sarebbe imporre vincoli stretti al trading complulsivo, in modo che chi è a caccia di plusvalenze sia costretto a cercarle in casa propria.

Sono riforme fattibili con i dirigenti attuali?

Non è un problema di nomi, l’ho già detto. Affidare la guida a un vero manager, come accade per gli sport americani, potrebbe essere una soluzione, ma l’importante è che chiunque governi possa farlo con mandato pieno e non sia costretto a cercare consensi politici di volta in volta come accaduto finora.

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