"Giocare da uomo", l'autobiografia di Javier Zanetti
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"Giocare da uomo", l'autobiografia di Javier Zanetti

Il capitano nerazzurro si racconta nel nuovo libro in uscita per Mondadori. Curiosità, segreti, storie mai raccontate e aneddoti su vent'anni di carriera nerazzurra

"Giocare da uomo". Raramente titolo per un'autobiografia fu così azzeccato. In attesa di un ritorno in campo sul quale tutti sono pronti a scommettere Javier Zanetti si racconta in un nuovo libro edito da Mondadori. A partire da quel 1995 anno in cui la sua vita cambiò e si tinse di nerazzurro: "Me ne sono accorto da quando sono arrivato a Milano con i tifosi. Quando Massimo Moratti mi ha accolto nel suo ufficio o alla Terrazza Martini in un giorno di temporale; lì mi aspettavano Bergomi e Facchetti. Ho capito che iniziava una nuova vita". 

Diciotto anni in cui il timido ragazzo argentino ha vinto tutto e convinto tutti. Chi lo ha allenato ne ha sempre apprezzato le qualità tecniche e ancor più la costanza e la tenacia. Giacinto Facchetti provava per lui l'affetto di un padre, il presidente Moratti lo considera l'unica pedina davvero insostituibile nello scacchiere interista, i compagni da sempre gli riconoscono autorevolezza in campo e fuori dal campo. Ma chi è l'uomo dietro al campione? E cosa spinge questo ragazzo di quarant'anni a salire palla al piede a centrocampo sempre con lo stesso eterno entusiasmo? In questo libro Javier Zanetti - con l'aiuto di Gianni Riotta - si racconta lasciando negli spogliatoi la timidezza e parlando "a tutto campo" dell'Inter, del triplete, di Mourinho, dell'infanzia difficile a Buenos Aires, della famiglia e dei valori in cui crede perché, per correre dietro a ragazzi che hanno la metà dei tuoi anni, non basta avere fiato, ci vuole il carattere di un vero uomo.

200 pagine edite da Mondadori per raccontare la storia di una leggenda nata a Buenos Aires che è riuscita a polverizzare ogni record del calcio italiano. Giocatore in attività e straniero con più presenze in serie A, il più presente nella storia dell'Inter e quello che ha giocato più partite consecutive in nerazzurro, 137. E' anche il recordman di presenze con la nazionale argentina, 145 partite con la seleccion albiceleste. Sacrificio come parola d'ordine, lavoro e tanti ricordi. Come quando prima di iniziare la carriera da calciatore faceva il muratore insieme a suo padre: "Lavorare con mio padre e vedere i suoi sacrifici ha fatto sì che io accogliessi in maniera importante ogni cosa che veniva dopo nella mia vita. Seguire i consigli dei miei genitori è stato fondamentale: studiare e poi fare quello che mi piaceva e inseguire il sogno che mi ha portato a essere quello che sono"

E poi le partite, infinite, e le vittorie, tantissime. Sedici trofei che lo rendono il più titolato della storia dell'Inter, un amore infinito che lo lega alla gente e alla città. "E' un amore che penso rimarrà tale. Non smetterò mai di ringraziare la famiglia Moratti e i tifosi per tutto l'amore che mi hanno dato dal primo giorno. L'Inter è un'altra famiglia che amo davvero. Siamo una grande famiglia, nel bene e nel male. Quando non arrivavano i trofei che tutti aspettavano siamo rimasti comunque fieri della nostra dignità, siamo andati avanti così e alla fine i successi sono arrivati". Soprattutto quello nella notte di Madrid, una Champions League inseguita con fame e voglia di riportare il club nella storia. Per farlo è servita una guida come Josè Mourinho, condottiero che nel libro Javier racconta come vincente che cura tutti i dettagli. Pupi invece resta umile e nella sua biografia si dà un 7,5 come voto alla carriera, senza dubbi su quale sia il picco più alto. 

"Nella notte di Madrid quando ho portato la coppa nello spogliatoio l'ho appoggiata a terra e le dissi: 'Ti inseguivo da tanto tempo e ora sei fra le mie braccia'. E' stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita, capivo l'importanza di questo traguardo. Già mi emozionai quando uscii coi compagni per il riscaldamento e vidi la curva piena. Quando l'arbitro diede il recupero guardai Samuel e iniziammo a piangere, vincevamo 2-0 e al massimo avremmo perso 2-1. Walter però mi disse di aspettare che mancavano tre minuti. Fu emozionante anche arrivare a San Siro alle sei del mattino con lo stadio pieno che ci aspettava. Avere il privilegio di indossare la fascia da capitano e dare ai tifosi questa allegria è stata una cosa indimenticabile". 

Ecco un estratto esclusivo del libro: 

La Partita Infinita

«E sette, e otto, e nove…» Luis García, il fisioterapista della Nazionale argentina, piega la mia gamba sinistra e conta i movimenti che mi restano da fare. «E uno, e due, e tre…»Seguendo il ritmo di Luis, un uomo minuto, serio, guardo fuori dalla vetrata che circonda la palestra, verso i grandi prati verdi e il bosco fitto di alberi. La luce è chiarissima, un aereo passa alto in cielo, l’aeroporto di Buenos Aires, a Ezeiza, è poco lontano. È mattino presto, fa fresco. In Argentina è ancora inverno, mentre in Europa la gente scappa verso le spiagge e le vacanze, leggendo entusiasta le notizie della campagna acquisti, e il campionato sta per iniziare, le squadre sono in ritiro, i giovani sognano gloria, i veterani tornano in campo sicuri di sé. Calcio pasión de multitudes, passione delle masse dicono qui, nella metropoli di tredici milioni di abitanti dove sono nato e cresciuto, e che quando si gioca una partita dei Mondiali si svuota, strade fantasma dal pittoresco centro del Caminito all’antico porto sul Río de la Plata. Sono concentrato sull’allenamento, è la mia vita di ogni giorno. Sono famoso fra i tifosi – e vengo preso un po’ in giro dagli amici – perché mi sono allenato anche il giorno del matrimonio con Paula, la madre dei miei tre bambini. Avevo del tempo, e allora perché non farlo, sfilandomi il tight da cerimonia? Nella vita c’è sempre tempo per tutto, ma dobbiamo saperlo trovare, il tempo, avere metodo, non lasciare che la vita ci sfugga via in fretta senza che ce ne accorgiamo. Forse aver giocato oltre mille partite, centomila minuti inesorabili sul campo, mi ha insegnato a rispettare il valore del tempo. Il tempo somiglia a un miraggio, a un’illusione ottica, e a volte può tradirci. Un grande campione e mio compagno all’Inter, Samuel Eto’o, l’unico calciatore ad aver vinto dueTriplete, ossia campionato, coppa nazionale e Champions League nello stesso anno, il 2009 e il 2010, ricorda ridendo che in una partita entrata nella storia – al Camp Nou, nella semifinale di Champions League contro il Barcellona del mio amico Lionel Messi, per molti la più forte squadra di sempre – passandogli accanto gli gridai per incoraggiarlo, dopo un suo strepitoso recupero difensivo, lui attaccante costretto da un’espulsione a fare il terzino: «Bravissimo, Samu, dai che manca poco!». Rinfrancato, Eto’o alzò gli occhi verso il tabellone, scoprendo però che eravamo solo al 37’ del primo tempo. Non ti prendevo mica in giro, grande Samuel, ma da capitano, nella tensione, dovevo ricordarti che possiamo governare il tempo, non lasciarci mettere sotto. Stamattina presto, mentre mi alleno con Luis e calcolo il tempo degli esercizi, la mente vaga – capita quando provate a concentrarvi e il corpo fatica – e allora alzo lo sguardo intorno a me, per riprendere il filo dei pensieri. Sono al Predio, il campo di allenamento della Nazionale argentina, un luogo dove sport, storia e mito si respirano sui prati, come al verdissimo Coverciano per la Nazionale azzurra o all’immacolato Saint George’s Park per l’Inghilterra. Nella sala appena fuori dalla palestra dove sudo, alcuni pannelli fotografici ricordano le vittorie della gloriosa albiceleste, la Nazionale argentina così definita per la maglia biancoceleste, i Mondiali vinti e i grandi allenatori: César Menotti solenne, Carlos Bilardo sorridente. Ai muri sono appese foto e divise dei magici numeri 10 argentini che rivaleggiano con Pelé per la fama dell’asso degli assi: Diego Armando Maradona e Lionel Messi. Li guardo ogni volta che entro al Predio: Diego che a sorpresa non mi convocò in Nazionale ai Mondiali del 2010, senza un motivo tecnico e purtroppo con poveri risultati in campo, Lionel che da capitano dell’albiceleste ho visto crescere: un amico, un ragazzo semplice e timido fuori dal campo, una stella che in partita è capace di aggirarti come fossi il birillo di uno slalom e andare in gol. Sui giornali leggo l’elenco infinito delle sue partite, ci scambiamo sms sul telefonino, e da fratello maggiore vorrei dirgli: «Lionel riguardati, non giocare troppo, non farti imporre match inutili dal sistema e dal calcio show business. Anche il tuo tempo passerà, difendi il tuo corpo». Io sono un uomo fortunato e felice, il mio fisico non si è logorato. A quarant’anni ho battuto, secondo l’onnisciente Wikipedia, ogni record di presenze, con l’Inter nella Serie A italiana e nelle coppe europee per club, con la Nazionale argentina tra Mondiali e Coppa America. Il mio numero 4 è sceso in campo più di qualunque altra maglia della mia generazione. Dei ragazzi che hanno cominciato con me non resta più nessuno, solo qualche portiere: chi era insieme a me nelle giovanili oggi allena, fa il giornalista, il dirigente, magari tira qualche calcio al pallone in partitelle tra ex giocatori che – all’insaputa della stampa e dei tifosi, in gran segreto, su campetti di periferia – gli assi di un tempo continuano a disputare. Ma non provano più la pressione dello spogliatoio, non sentono l’urlo dei tifosi e i fischi degli avversari. Per loro il Novantesimo Minuto dell’ultima partita è stato già fischiato

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Matteo Politanò