Kenya maratona Gabriele Rosa
Massimiliano Verdino
Lifestyle

Gabriele Rosa, l'italiano che allena i figli del vento

Siamo stati in Kenya a vedere e conoscere l'allenatore italiano dei migliori fondisti e maratoneti del mondo

L’uomo è concreto, talvolta ruvido, senza dubbio lungimirante. Chi accumula chilometri con le scarpette da corsa d’altra parte è così: senza fronzoli - la corsa è fatica vera - e capace di affidarsi alla forza della mente quando le gambe, è inevitabile nelle gare su lunghe, lunghissime distanze, un poco abbandonano. «Se gli opposti si attraggono, i simili si amano». Lo insegnano la vita, e la saggezza popolare.

Sarà per quest’affinità elettiva con i corridori e per un luogo, il Kenya, che si offre con i colori degli impressionisti e la prosa di Karen Blixen, che Gabriele Rosa, bresciano doc, originario di Iseo e della Franciacorta ma cittadino del mondo, medico sportivo e allenatore di campioni con parecchi allori, olimpici compresi, nel carnet, ha saputo intuire e mettere a frutto la vocazione per la maratona dei keniani. Che il Paese africano sia l’ambiente privilegiato di straordinari corridori è riconosciuto ovunque.

Non era così tre decenni fa, quando Rosa vi arrivò. Fu l’incontro con Moses Tanui, tra i fuoriclasse da lui allenati, campione mondiale di mezza maratona e sui diecimila metri piani, all’inizio degli anni Novanta, a essere decisivo per il varo del progetto Discovery. Lo scopo era, ed è, selezionare talenti della corsa. Aiutare chi vive qui a utilizzare al meglio la particolare attitudine alla resistenza, sviluppata in millenni alle alte quote, e l’abitudine a percorrere chilometri, anche solo per arrivare a scuola.

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Gabriele Rosa comincia a raccontare: «Moses Tanui era in Italia per allenarsi. Mi chiese di prendermi cura del suo ginocchio. Mi disse: “Dottore, tu sei stato a Eldoret (la città a sei ore di auto da Nairobi e, oggi, non lontana dai «camp» fondati da Rosa, ndr), hai visto quali sono i nostri metodi di preparazione, le cose che facciamo e soprattutto come viviamo. Ci serve qualcuno che ci possa aiutare non soltanto nell’allenamento ma proprio nella disciplina della vita. Credo che tu sia la persona adatta. Vorrei davvero che tornassi in Kenya e seguissi me e gli altri corridori della Rift Valley”».

Doctor Rosa, come spesso lo chiamano i suoi atleti, rievoca quell’inizio davanti allo scenario da vertigine della Rift Valley. Siamo infatti su questa «faglia» che attraversa, come una ferita ancestrale, gli altipiani centrali del Kenya. In questi territori, inerpicati fino a 2.500-3 mila metri, sono nati i training camp del progetto Discovery, una formula ancora oggi unica al mondo.
Qui gli atleti vivono e si allenano assieme. «La prima esperienza di training camp nacque al Kaptagat hotel. Veniva chiamato “albergo” ma in realtà era un edificio in rovina. Tuttavia era un posto perfetto per allenarsi, con la ricchezza di percorsi che si adattavano a tutte le necessità, a ogni tipo di preparazione. E l’altitudine, 2.500 metri, era un elemento decisivo per migliorare il rendimento» ricorda ancora il dottore, l’inconfondibile barba bianca a fargli da cornice al viso.

Siamo atterrati nella regione dei «figli del vento» per la spedizione che ogni anno Rosa organizza per toccare con mano i progressi del Discovery. E ci siamo spinti fin quassù, fino ai camp di Kaptagat, Kapsait, il più estremo a quota 3 mila, Kapsabet. Kap, in lingua swahili, significa «altitudine». La terra rossa si allarga all’infinito, sotto la falcata elegante degli atleti, tanto possente quanto la natura intorno, mentre all’alba inanellano chilometri.
Nei «training camp» di Rosa è cresciuta una generazione di maratoneti che ha vinto e continua a vincere sui 42 chilometri e 195 metri più famosi. Ma non solo. Il cronometro che il dottore porta sempre al collo durante gli allenamenti si è fermato spesso su record del mondo, nel mezzofondo e nel fondo, oltre che nella maratona. E con gli stessi tempi eccezionali, per rammentarne solo alcuni, di Moses Tanui.

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Prendiamo Paul Tergat: fece registrare due ore, 4 minuti e 55 secondi, ottenendo il record del mondo alla maratona di Berlino nel 2003. E ancora Margaret Okayo, che trionfò pure nelle maratone di New York e Londra. Invece Samuel Vanjiru, oro sui 42 chilometri alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, con due ore, 6 minuti e 32 secondi, è scomparso prematuramente e tragicamente nel maggio 2011. Dice Rosa: «Samuel era un ragazzo introverso, tanto delicato di spirito quanto forte di cuore, di polmoni e di muscoli. Uno dei più grandi atleti che abbia avuto la ventura di incontrare nella mia vita di medico e di tecnico, e tuttavia estremamente fragile, come lo sono certi capolavori della natura». La voce dell’allenatore si spezza in un sussurro quando torna con la mente a quell’esistenza «troppo breve e troppo speciale». Fatto sta che i campioni cresciuti grazie ai «training camp» keniani hanno collezionato oltre 50 vittorie nelle sei maratone più importanti al mondo.

Ma lei, dottore, quando era giovane, correva? «L’infatuazione per la corsa» così la definisce Rosa, «nasce appunto da un sogno non coronato, quello di correre la maratona. Da giovane vincevo nelle gare scolastiche su distanze dai mille ai 2 mila metri. Tuttavia mi è sempre rimasto dentro il desiderio di misurarmi con questa gara. E quel sogno l’ho coronato con i miei atleti». C’è un filo, quello della passione per la vita, che lega il dottore al suo prozio - si chiamava come lui, Gabriele Rosa e fu eroe del Risorgimento, amico e seguace di Giuseppe Mazzini - e al padre, il tenente Ermes Aurelio Rosa che combatté sui fronti della Prima guerra mondiale.
«Sono diventato medico per seguire questa passione. Sono stato corridore, non solo per osservare il mio organismo, ma per scoprire le reazioni alla sofferenza. Ho allenato atleti per l’emozione di vederli migliorare e crescere fino a diventare campioni». Uno di loro è Gianni Poli, conterraneo di Rosa, vincitore nel 1986 della maratona di New York. Il dottore incontrò Poli nel 1978. Era un ragazzo «alto, leggero come una piuma ma resistente come l’acciaio». Poli viveva a Lumezzane, lembo di terra bresciana conosciuto per le industrie metallurgiche, veniva da una famiglia numerosa e faceva l’operaio. «All’inizio, mentre si allenava, lavorava ancora in fabbrica. Persino quando cominciarono ad arrivare i primi importanti risultati. Poi scelse la professione di maratoneta a tempo pieno», aggiunge Rosa.

Il viaggio nel selvaggio incanto della Rift Valley ha condotto il dottore tra uomini e donne ricchi di talenti e speranze, «pronti a duri sacrifici pur di ottenere, con la gloria atletica, un altrettanto fondamentale promozione sociale». La falcata dei runner keniani, da gesto sportivo di un’eleganza senza eguali, è divenuta cartina di tornasole del Dna di un popolo. Dell’anima di una Paese che nella vocazione per la corsa ha trovato la via per il riscatto sociale. Dunque, grazie alle loro imprese, molti atleti sono passati dalla povertà al benessere, per sé stessi e per le loro comunità. «Siamo riusciti a convincere i keniani che la maratona è una grande opportunità», spiega Rosa. Correre è diventato veicolo di emancipazione anche per le ragazze. Le ha aiutate a uscire dal ruolo sottomesso e ancillare che hanno per tradizione nelle famiglie: non soltanto madri, figlie, mogli, ma con una loro posizione autonoma, culturalmente e socialmente riconosciuta.

«A monte di questi successi c’è una sincera partecipazione alla cultura del luogo. Bisogna infatti conquistare la fiducia delle famiglie, fino a essere considerati uno di loro» sottolinea il dottore. «Essere atlete disciplinate e coltivare la fede in Dio» è il motto che campeggia a Londiani, nel cuore della Rift Valley, dove è sorto uno dei «training camp» creati da Rosa, in cui vivono e si allenano soltanto ragazze, perlopiù adolescenti. Campionesse giovanissime, ma già capaci di volare oltre il traguardo.

Fiere ed eleganti come un altro splendido atleta africano, Abebe Bikila che - scalzo - trionfò nella maratona alle Olimpiadi di Roma nel 1960. È passato oltre mezzo secolo ma Gabriele Rosa confida, nel ricordo, di provare un brivido. Gli pare ancora di vedere, illuminato dai riflettori, il sottile, elastico soldato della Guardia imperiale etiope sfiorare, a piedi nudi, l’acciottolato delle vie consolari. Magicamente vincente.

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