La finale decisa dagli ultras come il derby del bambino morto
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La finale decisa dagli ultras come il derby del bambino morto

Quando il calcio diventa ostaggio delle curve violente

Dieci anni fa, derby del bambino morto, non si giocò per via di una falsa notizia. Ieri, finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, si è giocato anche dopo fatti realmente accaduti. A decidere per tutti, in entrambi i casi, gli ultras e i loro capi. Il 21 marzo del 2004 quelli della curva romanista e laziale, ieri Genny a' carogna, figlio di un presunto affiliato al clan camorristico dei Misso, noto pregiudicato, già colpito da Daspo e leader della tifoseria napoletana. Ma a collegare le due situazioni, oltre alla stessa location, lo stadio Olimpico di Roma, c'è un dato in più. Tra i tifosi che dieci anni fa decisero che il derby Lazio-Roma doveva essere sospeso perché un bambino era stato investito e ucciso da un'auto della polizia – evento fortunatamente mai accaduto – c'era anche Daniele De Santis, detto Gastone, il presunto responsabile del ferimento di Ciro Esposito, colpito al petto nel corso della sparatoria avvenuta nei pressi del vivaio di De Santis prima della finale, regolarmente disputata, e ancora ricoverato in fin di vita al policlinico Gemelli.

Nel suo libro “Il derby del bambino morto” il sociologo e storico tifoso della Roma Valerio Marchi, scomparso nel 2006, descrisse così ciò a cui, insieme ad altre migliaia di telespettatori, assistette allora e che ieri si è ripetuto, nello stesso stadio e con una dinamica praticamente identica.

Inizia il gioco e le poche inquadrature della curva mi suggeriscono che non tutto procede per il meglio, il movimento convulso intorno ai boccaporti mi fa temere che sta avvenendo qualcosa di brutto a ridosso della curva, ma dalla telecronaca nulla traspare. Segue l’intervallo e, alla ripresa del gioco, i commentatori di Sky non possono infine non notare e riferire la scomparsa degli striscioni prima in Sud e successivamente in Nord, in Tevere, in parte della Monte Mario. Né possono ignorare i cori contro le forze di polizia e per la sospensione della partita, sempre più alti e sempre più condivisi dall’intero stadio. Provo a richiamare i soliti amici ma i cellulari non hanno campo, un gigantesco ingorgo telefonico blocca ogni possibilità di comunicazione con l’Olimpico”.

Nonostante l'inutile tentativo di smentire, attraverso le parole di un funzionario della questura diffuse dagli altoparlanti dello stadio, la notizia che un bambino fosse stato investito da un'auto della polizia, le tifoserie opposte – che nel frattempo si erano messe d'accordo via cellulare – avevano deciso che la partita non poteva riprendere. Tanto che l'arbitro Rosetti fu costretto a sospenderla al 3' del secondo tempo per il montare dei cori di protesta e i razzi sparati in campo dagli spalti. Mentre i capitani delle due squadre, i dirigenti, il direttore di gioco cercano di decidere il da farsi, ecco che l'inquadratura delle telecamere si sposta su alcuni rappresentanti della tifoseria giallorossa (tra cui anche quello che avrebbe sparato ieri) che scavalcano i cancelli della Sud ed entrano in campo per parlare con Totti e Cassano. Gli spiegano quello che ancora continua ad essere negato dagli altopalranti, e cioè che un bambino è morto e che non possono proprio mettersi giocare. I giocatori cedono alle pressioni.

Ecco perché ieri chi era davanti alla televisione o collegato alla radio, o in campo, ha vissuto una sorta di deja vu nell'assistere alla scena di un funzionario della polizia che raggiunge Genny a' carogna arrampicato sulla vetrata della curva per trattare sul prosieguo della partita.

Un'immagine che, come quella di dieci anni fa, offende un intero Paese, le sue istituzioni, le forze dell'ordine, ogni principio di legalità e i tifosi per bene, quelli che non si prendono a mazzate prima, durante e dopo le gare, che non scavalcano le barriere, che non ricattano le società sportive, che non pretendono di decidere per conto di tutti, che non inneggiano all'assassino di un poliziotto ucciso fuori da un altro stadio, in un'altra città, durante altri scontri, tra ultras di squadre diverse ma tutti ugualmente teppisti.

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Claudia Daconto