È arrivato il momento di superMario
(La Presse)
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È arrivato il momento di superMario

Adesso Balotelli è tutti noi. Con i suoi pregi e i suoi difetti

Siamo messi così: nelle mani, nella testa, nei piedi di Mario Balotelli. L’Italia di questi giorni è il pallone trattato da lui. Accarezzato, calciato, sbattuto, baciato. Dentro o fuori dall’Europa del calcio, a seconda del suo umore e della sua capacità. Siamo appesi a uno strafottente: un arciitaliano antiitaliano. È il destino che non abbiamo cercato, ma che ci siamo trovati. Il talento matto di un ventenne ci tiene agganciati alla speranza di vincere qualcosa, di goderci un’estate tipo quella del 2006, di andare in vacanza felici pur sapendo d’essere in un mare di guai.

Tocca a Mario. Cioè al meglio e al peggio di noi. Balotelli è un tipo strano. Non è più solo la storia del genio ribelle, della sregolatezza che si mescola alla stoffa, della follia che s’alterna all’estro. Qui c’è altro. È un carattere indefinito: assomiglia più a una rockstar che a uno sportivo celebre. Uno che, se decide che una tournée la deve finire, s’impegna come un operaio. Prima della partita con l’Irlanda era infortunato: ha stretto i denti e ha recuperato. Il ginocchio fa male? Chissenefrega. Ha voglia, più di quanta gliene si attribuisca. Solo che dentro quella voglia infila i capricci. Tanti, per qualcuno troppi. Quelli che uno per uno finiscono segnati sul taccuino dei detrattori. Quelli che ti lasciano sempre la sensazione di puntare su un precario. Brillante, fenomenale, ma comunque precario della vita. Uno che c’è e poi si brucia per autocombustione.

L’Italia è piena di storie di talenti viziati. Balotelli, però, sfugge alla catalogazione classica. È più indefinito, nella sua semplicità è più complesso. L’altro ribelle della compagnia azzurra, Antonio Cassano, risponde a un criterio più elementare: ha capacità fuori dal comune che ha messo in discussione per un carattere incontrollabile.

Mario no. È così, ma poi ci aggiunge qualcos’altro: il bisogno di sentirsi al centro di un mondo e contemporaneamente di volere uscire da quel mondo. L’ha fatto quest’anno in Inghilterra, al Manchester City: è andato a trovare l’allenatore che l’aveva lanciato, Roberto Mancini, s’è fatto coccolare, s’è fatto nutrire, s’è fatto amare, s’è fatto tollerare. Ha dato, pure: gol, spettacolo, classe, idee, popolarità, forza. Quando aveva tutto ha cercato e trovato l’autodistruzione. La gomitata all’avversario, la lite con i compagni, le espulsioni a ripetizione fino alla rottura temporanea proprio con Mancini.

È come se Balotelli non abbia ancora capito qual è il limite da non superare prima di sfociare nel suicidio: una specie di sfida perenne con se stesso e con chi gli sta attorno. Un tira e molla continuo tra positivo e negativo, tra ragione e sentimento, tra buone intenzioni e pessime azioni. Solo che con lui partecipano anche altri: per quanto si sforzino di essere rigidi con lui, alla fine gli allenatori cedono. Si dividono tra la morale e l’opportunismo, scegliendo quasi sempre il secondo: Balotelli serve. Alla sua squadra di club e all’Italia. Così, quando doveva vincere a ogni costo, Mancini se ne è infischiato delle sue follie e l’ha messo in campo: lui all’ultimo minuto dell’ultima partita di campionato ha fatto l’assist per il gol scudetto del Manchester City. Prandelli idem: Mario non funziona? Mario è nervoso? Magari comincia in panchina, ma se bisogna vincere lo mette dentro.

Balotelli è il nostro specchio. È la divisione eterna fra il bene e il male. È la soddisfazione e l’insoddisfazione insieme, spesso a parti invertite. Il riassunto emotivo della sua personalità è il momento del gol: nell’attimo di gioia più esaltante non esulta. Anzi, spesso s’arrabbia. Un tormento che accompagna lui e noi. In quell’istante Mario mette tutto quello che è: uno sbruffone che infastidisce, ma che subisce torti che in pochi notano. Gli lanciano le banane, gli urlano buuu razzisti in partita e in allenamento, lo insultano in ogni modo. Lui va avanti, dritto come uno di quei poliziotti che nelle manifestazioni restano fermi a prendere sputi e sassi, ma se hanno l’ordine di caricare allora caricano.

Non ha avuto una vita facile, «Balo». Bisogna provare quello che ha provato lui per capire: nascere in Italia da straniero, essere abbandonato in ospedale dai genitori naturali, trovare una famiglia italiana che ti prende, ti accudisce, ti cresce, ti educa. Non c’è giustificazione alle sue follie, ma bisogna partire da lì per capire. È come nei personaggi dei romanzi: se ti perdi l’inizio, non capisci il perché di tante cose.

Balotelli ha scelto l’Italia per riconoscenza e per appartenenza. Ha aspettato per esserlo: i 18 anni, le pratiche per la cittadinanza, la burocrazia che l’ha imbrigliato molto di più degli avversari. Oggi ci rappresenta. Oggi lui è noi. Con il meglio che siamo e anche con il peggio. Perché ha la forza, il talento e il genio. Poi ha il risvolto della nostra identità: spaccone, sbruffone, arrogante, presuntuoso, strafottente. È una sgasata sbattuta in faccia al mondo con la sua nuova auto di lusso. È la multa presa per divieto di sosta pur avendo un parcheggio comodo a 20 metri. È la gomitata data inutilmente al difensore, che poi mette in difficoltà la squadra. È quello capace di distruggere in un attimo il lavoro di un anno. È uno che al compagno di squadra pallone d’oro, campione di tutto ma arrivato a fine carriera, in allenamento dice «vecchio». Senza pudore e ritegno. È una scorrettezza che a volte va oltre il bene e persino il male.

È tutto questo mescolato con una bravura difficile da trovare in uno così giovane. Perché Mario ha 21 anni. È l’attenuante generica dei suoi peccati ed è ora la risorsa migliore che abbiamo per tenerci su, per provare a stare nell’Europa del calcio. L’età, la grinta, la forza, la voglia di Balo sono il nostro miglior titolo di stato. Clamoroso, questo. È il segno dei tempi: puntiamo sul genio scorretto che ti può portare in paradiso e subito dopo spedire nelle tenebre. Fra rettitudine e risultato devi scegliere il secondo. Che fai altrimenti? Metti in campo quelli meno bravi ma più affidabili?

Il calcio che si gioca in un Europeo non può accettare compromessi: bianco o nero. Adesso all’Italia conviene rischiare: siamo nelle mani, nei piedi e nella testa di un ribelle di talento diventato italiano per scelta e fuggito dall’Italia perché si sente migliore di quello che riusciva a essere qui. Giochiamo
a pallone con Mario, perché lui gioca per noi. Anche se a volte non sembra.  

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Giuseppe De Bellis