La mia vita 'granata' scandita dai derby
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La mia vita 'granata' scandita dai derby

Racconti, anzi, ricordi di un tifoso del Torino alla vigilia della partita che vale un anno, anzi, almeno 17

di Stefano Caselli (giornalista de 'Il Fatto Quotidiano e, soprattutto Granata doc!)

Era il 1982 e non avevo ancora sette anni. Era passato un mese dalla prima volta che chiesi a papà se allo stadio ci potevo venire anch’io. Disse sì, entusiasta, e io mi innamorai di quelle maglie granata. Un mese dopo mio padre non uscì per andare allo stadio: “Non si danno soldi alla Juve” era il motto di ogni derby giocato fuori casa. Mi avevano spiegato che la mia era la squadra dei poveretti, che dopo un decennio di rinnovata gloria era rientrata nella abituale condizione di inferiorità verso quelli con la maglia a righe, che erano della Fiat, che non sapevi bene cosa fosse ma che a Torino era dappertutto: “Vinciamo due a zero!”, sentii dire con stupore. Così mi attaccai alla radio. La Juve ne fece quattro e io fui piuttosto contrariato.

L’anno dopo il primo derby arrivò di nuovo fuori casa. Segnò Platini e la Juve vinse di nuovo. Poi arrivò finalmente marzo (allora i derby erano sempre alla sesta di andata e alla sesta di ritorno), giocavamo in casa e si poteva andare allo stadio. La Juve ne fece due e io mi accasciai con le mani nei capelli sulla balaustra della tribuna d’onore (non ancora vip) dove papà mi aveva portato, perché pensava che un soldo di cacio alto un metro e venti potesse guardare la partita soltanto nell’unico posto dove si stava seduti. Poi il miracolo: il mio torello segnò tre volte in tre minuti (Dossena-Bonesso-Torrisi, noi lo recitiamo ancora come un salmo) e la Juve di Platini e dei campioni del mondo uscì strisciando. A casa guardammo domenica sprint, al terzo gol la telecamera Rai inquadrò l’incredibile bolgia della curva Maratona, poi si sposto verso la bolgia dei parterre, quindi verso la festa della tribuna centrale, fino alla compassata gioia della tribuna d’onore. In mezzo agli impermeabili si notava chiaramente un signore dai capelli grigi che, saltando, agitava in aria un bimbetto di otto anni. Era papà, il bimbetto ero io.

L’anno dopo il derby in casa arrivò in ottobre. Non so perché ma papà trovò i biglietti nel parterre accanto alla curva Filadelfia, in mezzo a quelli della Juve. Filò tutto liscio, anche perché il Toro vinse alla grande due a uno, nonostante quello stacco di testa di Cabrini, proprio di fronte a noi, che pareggiò il gol di Dossena. Ci pensò “spadino” Selvaggi a mettere le cose a posto.

Al ritorno io e mio fratello avremmo voluto andare allo stadio anche a costo di dare soldi alla Juve, sembravamo quasi aver convinto papà ma arrivò la febbre per entrambi. Ascoltammo il derby alla radio. A metà secondo tempo segnò di nuovo Selvaggi, mio fratello ed io ci abbracciammo selvaggiamente in mezzo alla stanza. Una vittoria significava addirittura sperare nello scudetto. Poi Platini ne fece due. Mio fratello, già adolescente, spense Tutto il calcio minuto per minuto e mise quell’agghiacciante album dei Matt Bianco che ancora oggi (mi è capitato di sentirlo per radio) mi ricorda quel nefasto pomeriggio. Quella sconfitta è stata una cocente delusione infantile. Da allora so che prima di esultare è meglio aspettare la fine della partita. Sempre.

L’anno dopo il primo derby era in casa loro, quindi noi andammo in montagna. Nel bel mezzo di una discesa sul bob vidi mio padre spalacare la finestra e urlare: “Franciiiiniiiii!”. Avevamo pareggiato il solito gol di Platini. Più tardi guardai l’orologio credendo che la partita fosse ormai finita. Ma la finestra si riaprì e mio padre urlò ancora più forte: “Due a unooooooo! Serenaaaaaa”. Al novantesimo poi, che goduria. Al ritorno, invece, perdemmo male due a zero, ma arrivammo davanti in classifica e tanto bastava.

Questo era il derby di Torino, più o meno fino alla metà degli anni 90. Le partite che scandivano le stagioni come le classi a scuola. Il Tre a due? In terza elementare. Il gol di Serena? In quinta. La doppietta di Casagrande? Quarta liceo. E così via. In questi giorni mi par di vivere la stessa tensione di un tempo, ma se allora era trepida attesa, ora è mesta certezza dell’avvicinarsi dell’ineluttabile. Da bambino il mio Toro e la Juve giocavano lo stesso sport, oggi no. Il divario, negli ultimi 17 anni, si è divaricato a dismisura ed è già tanto che il derby si giochi. Ci sono ventenni che tifano Toro e che non ne hanno mai vinto uno (l’ultima vittoria risale al 1995, governo Dini).

Domenica perderemo ancora e i ventenni non potranno nemmeno cosnolarsi con quella meravigliosa muraglia umana da 70 mila, divisi a metà, che era il vecchio Comunale anni 80. Nel loro magnifico stadio, oggi, si entra solo se invitati. E noi non lo siamo.

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