Come nasce un Giro d'Italia
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Come nasce un Giro d'Italia

Nel decidere le tappe l'economia viene prima di tutto. Anche se l'edizione 2014 si propone come "umana" dopo tanti percorsi da fachiri del sellino

di Sergio Meda Sportivamentemag

Volete sapere come nasce un Giro d’Italia? Viene partorito solitamente in una notte, dopo un tot di sigarette, in capo a molti mesi di qualche discussione e molti compromessi. Alcuni buoni, altri pessimi. Attualmente lo decidono in troppi: un tot di uomini di marketing, qualche addetto alla pubblicità e uno che sa di ciclismo e di corse a tappe, messo spesso in minoranza. Insomma, chi sa ha soltanto la penultima parola. Beati Armando Cougnet e Vincenzo Torriani, i due primi patron - artefici del Giro dal 1909 al 1990 - che lo costruivano in perfetta autonomia dopo essersi confrontati con il territorio, la politica, le istituzioni, le aziende, le pro loco, gli enti provinciali del turismo. Ultimo passaggio, obbligato, il direttore della Gazzetta che aveva già detto la sua in termini di convenienza sportiva. I Giri si costruivano anche sulle tirature potenziali dei giornali, non solo di quello rosa. Francesco Moser è un buon esempio di Giri tracciati su misura. Peccato che abbia perso quelli disegnati per lui e vinto l'unico (1984) non prenotato.

Ora non capita più, le convenienze sono quasi esclusivamente di tipo economico, occorre che i conti tornino. Magari non alla Rai che lo produce – le partenze dall’estero valgono un 80 per cento di costi in più per l’allegro carrozzone pubblico, sempre sovrabbondante – e nemmeno agli sponsor che non hanno alcun interesse in Irlanda del Nord. È un caso, non fateci caso. Chi lo organizza, Rcs Sport per conto della Gazzetta dello Sport, deve badare agli equilibri di cassa e se il Giro porta il ciclismo in terre lontane non è certo per celebrare Sean Kelly vent’anni dopo. Il Giro non ripara un torto e purtroppo ne produce di più profondi: non a caso sfiora al rientro il Sud Italia e risale velocemente la penisola per attestarsi al Nord. Le giornate irlandesi valgono milioni di euro (dicono 6), sulla carta compensano le verosimili difficoltà di alcune città di tappa a onorare gli impegni assunti malgrado regolari delibere di Comuni, Province e Regioni. Chi può stanzia una bella cifra (la partenza vale 50 mila euro, l’arrivo da 120 mila  in su), poi magari subisce l’oltraggio del patto di stabilità e i soldi approvati servono a coprire le emergenze, cioè la quotidianità.

Il Giro d’Italia, al pari del Tour e della Vuelta, è oggi una storia di visibilità televisiva e di sponsorizzazioni che ne sono l’immediata conseguenza. Più alte le audience, più ricchi i diritti per acquisirne le immagini l’anno dopo (in diretta, gli higllights valgono poco) e la valorizzazioni dei marchi (non chiamateli brand, anche se si va in Irlanda). Conta ancora poco il web ma è un mercato potenziale di un certo interesse. I dirigenti televisivi sono comici, a volte: si strappano i capelli annotando quanti convengono sulle strade, gli appassionati che affrontano le salite a piedi pur di applaudire i loro eroi (sempre meno dopati, ci dicono). Quei dirigenti vorrebbero che la gente fosse tutta davanti al teleschermo, per l’audience di cui sopra, senza accorgersi che il fatto decreterebbe la fine del ciclismo.

Chi sa di ciclismo e corse a tappe, l’attuale penultimo decisore, conosce alla perfezione gli ingredienti di una corsa a tappe ottimale. Il mix utile non cambia: le esigenze di carattere tecnico (lunghezza della tappa, profilo altimetrico, natura del tracciato, suo epilogo ottimale) unitamente a quelle di ordine culturale, spettacolare, folklorico. Poi bisogna rimanere nei 3.500 km complessivi e questo comporta trasferimenti mai opportuni, che incidono su tutti, in primis i corridori che talvolta raggiungono l’albergo, dopo la tappa, a ora tarda, dovendo ancora essere massaggiati, prima di cena. E la mattina, anche se le tappe partono tardi, i trasferimenti non sono mai una passeggiata di salute.

Il Giro, volendo, è anche una storia di protagonisti annunciati (e quindi ingaggiati, se di grande richiamo). Ma dopo l’inutile spesa per Lance Armstrong al suo  rientro agonistico, non se ne sa più nulla. Ufficialmente tutti si schierano al via perché è il loro lavoro.

Unico dato che consola, dopo Giri disegnati per fachiri, quelli degli ultimi anni, ci aspetta un’edizione che il direttore della Gazzetta, Andrea Monti, ha definito "umana". Vale a dire senza la sbornia di salite che prosciugano le energie negli ultimi dieci giorni. Quest’anno basterà lo Zoncolan, il penultimo giorno, a decretare il verdetto finale, a meno di colpi di mano in precedenza, quelli che determinano i "Giri bidone", apprezzati solo dall’outsider che li vince.

Sergio Meda, autore di questo articolo, è direttore del sito Sportivamentemag, magazine on line che tutela lo sport e le sue regole, proponendo  storie e riflessioni.

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