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Il caso Catania e quelle due denunce snobbate

Essere garantisti è di rigore, ma il modo di operare della Procura federale lascia perplessi. Così come tanti altri aspetti del nostro calcio

Premessa ineludibile: siamo tutti garantisti. Ci tocca esserlo anche di fronte alle intercettazioni con cui i magistrati e la Digos di Catania hanno svelato il presunto tarocco di quattro, forse cinque, partite vinte dalla squadra etnea allargando i cordoni della borsa. Ci tocca esserlo se non altro per amore del calcio, o di quel che ne resta. Ci tocca esserlo anche se quelle telefonate smargiasse, così simili a quelle finite un mese fa nel fascicolo d’inchiesta della direzione antimafia di Catanzaro, descrivono un mondo dove omertà e impunità sono valori acquisiti e condivisi. E dove chi dovrebbe vigilare fa spesso la figura della guardia giurata alla guida del portavalori nei gialli americani: non intervengo, tengo famiglia, col cavolo che mi faccio coinvolgere, meglio sdraiarsi pancia a terra e farsi rapinare in attesa che arrivi la polizia, quella vera, a sporcarsi le mani.

Repetita juvant: siamo tutti garantisti. E però ci sono almeno tre procure al lavoro, le quali sostengono che nel corso dell’ultimo campionato siano state falsate, in proporzione variabile ma sempre abbondante, tre delle nostre quattro leghe: la B, la LegaPro e la D. Mancherebbe la A, dove non risultando partite truccate ci si deve consolare con una quisquilia come il fallimento di una società professionistica (il Parma) a torneo in corso. Società che meno di un anno fa, secondo le guardie giurate di stanza in via Po, nonostante l'esclusione dalle liste Uefa era in regola con tutti i parametri finanziari per l’iscrizione. Società che faceva operazioni di calciomercato mentre il suo pacchetto di maggioranza rimbalzava tra Cipro e Russia per la ragguardevole cifra di un euro e mentre il suo presidente pro-tempore, Giancarlo Manenti, svuotava pure il frigobar della sede e saccheggiava il fondo spese per le trasferte.

Non è questa la regola, ci mancherebbe. Ma è un pericolo concreto nel momento in cui i proprietari di molte squadre, soprattutto nelle serie inferiori, si trovano con l’acqua alla gola, esattamente come succede per le attività più tradizionali. La crisi di liquidità del calcio, ultimo terminale di quella vissuta dall’Italia nel suo complesso, permette a chiunque di proporsi. Le referenze, a un certo punto, hanno iniziato a contare relativamente. Chi è indebitato, quando si presenta un nuovo investitore, non fa domande indiscrete. Il quesito “Da dove vengono i soldi?” non scuote i patron, più preoccupati di dare in pasto alla folla l’acquisto di un nuovo attaccante e all’Irpef il saldo delle rate. Ma se il Carlo Tavecchio che avanza la proposta di una white list dei pretendenti alle squadre italiane è lo stesso Carlo Tavecchio che sussurra come fra gli attuali proprietari forse solo in tre o quattro abbiano le carte in regola per iscriversi ai rispettivi campionati, non ne usciamo.

Tornando alla brutta storia di Catania e alla metafora della guardia giurata, la Figc e il suo organo inquirente, l’Ufficio indagini della procura federale, sembrano in effetti aver evitato di portare la mano alla fondina in almeno un paio di casi. La prima: in un rapporto annuale presentato al Parlamento europeo lo scorso 2 giugno il gruppo internazionale Federbet aveva inserito 4 partite, tutte del Catania, nell’elenco dei match a rischio combine nella serie B italiana. Tre di queste sono poi finite nell’inchiesta deflagrata ieri. Secondo chi presentò le denunce i segni di manipolazione - nell’andamento del risultato, nel comportamento dei calciatori, nell’oscillazione delle quote e dei flussi di puntata - erano evidenti. Ma il palazzo reagì con sdegno, sottolineando che non c’erano prove. Addirittura paradossale la seconda: alla vigilia di Varese-Catania, una delle partite finite nel mirino degli inquirenti, la società varesina si autodenunciò alla procura federale, ipotizzando la possibilità che qualcuno stesse tentando di truccare il match all’insaputa dei suoi dirigenti. Né gli ispettori del pallone nè il presidente della LegaB Andrea Abodi, lo stesso che oggi si dice “costernato”, mossero un dito.

All’alba del giorno dopo, il Palazzo è tornato a chiedere nuove regole, nuovi codici etici, nuove sanzioni esemplari. Poichè abbiamo perso il conto delle estati in cui si è promessa piazza pulita e delle inchieste in cui il gergo malavitoso e quello sportivo si affastellano senza soluzione di continuità, ci permettiamo di dubitarne. Ancora: siamo tutti garantisti. Ma che ad auspicare la tolleranza zero sia un sistema ai vertici del quale siedono un indagato (Claudio Lotito, vice di Tavecchio, presidente della Lazio e proprietario della Salernitana), un rinviato a giudizio nonché sospeso dagli incarichi federali (Mario Macalli, presidente della LegaPro) e uno sfiduciato ma ancora non ufficialmente dimessosi (Felice Belloli, ras del calcio dilettantistico reso celebre dalla battuta sulle “quattro lesbiche” del calcio femminile) suona un po’ come un tacchino in fremente attesa del Thanksgiving. «Al peggio non c'è mai fine», ha detto ieri il numero uno del Coni Giovannino Malagò. No, in effetti no. Almeno fino a quando chi dovrebbe combattere il marcio continuerà a farlo solo a parole, e solo dopo che un magistrato ha fatto il lavoro per lui. Anche se restiamo tutti garantisti.

 

 

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Gianluca Ferraris

Giornalista, ha iniziato a scrivere di calcio e scommesse per lenire la frustrazione accumulata su entrambi i fronti. Non ha più smesso

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