Carpi in A: i segreti economici di una promozione modello
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Carpi in A: i segreti economici di una promozione modello

Rapporto con il territorio, acquisti low cost e tetto basso agli ingaggi: i numeri e i protagonisti di un'impresa sportiva nata fuori dal campo

La gioia e lo straniamento di una città da 70 mila abitanti issata sull’Olimpo del calcio che conta. Gli editoriali esaltanti su una squadra costata (cartellini compresi) meno di un mese dello stipendio di Cristiano Ronaldo. Gli inviati di Guardian e Financial Times costretti a percorrere l’assolata via Emilia per raccontare il nuovo miracolo italiano. Gli sfottò a Claudio Lotito che pochi mesi fa gridava alla Caporetto dei diritti tv e la soddisfazione malcelata di un pianeta calcio sempre più bisognoso di foglie di fico. Ora che è valso una promozione in serie A, il modello Carpi fa scorrere fiumi di inchiostro, compilare decine di tabelle Excel e sparare ricette a casaccio. Ma per comprenderlo non basta fare appello a programmazione, epica low cost e fortuna, che pure ci sono state e hanno avuto un poeso determinante nella corsa della squadra di mister Castori alla massima serie.

Piccolo è bello
La verità è che l’exploit del Carpi FC 1909 (la squadra ha mantenuto lo stesso titolo sportivo nonostante un traumatico fallimento arrivato 15 anni or sono) è l’eredità diretta e immediata, trasposta su scala calcistica, del modello distrettuale, non a caso fondato sul motto “piccolo è bello”: piccola e media impresa lungimirante, legata a doppio filo al territorio, altamente specializzata, votata agli investimenti ma senza mai fare il passo più lungo della gamba. La provincia modenese, da questo punto di vista, è un laboratorio eccellente e ha già alle spalle un piccolo miracolo calcistico come quello del Sassuolo, guidato sì da un foresto come Giorgio Squinzi, patron della milanesissima Mapei, che tuttavia ha scelto di investire nel pallone proprio per il forte legame con il distretto locale della ceramica, un cluster che da solo vale l’81% dell’intera manifattura italiana di settore: 200 aziende, 23 mila addetti, oltre 500 forni e più di 410 milioni di metri quadri di produzione annua, il 5% annuo di investimenti in innovazione e nuove tecnologie, un fatturato complessivo di 1,6 miliardi di euro. Il distretto di Carpi è specializzato in tutt’altro, la maglieria e il pronto moda. Ma esibisce anch’esso numeri da urlo, come conferma un rapporto stilato lo scorso anno dal centro studi Pambianco che tra le dieci aziende fashion italiane più promettenti ne inserisce ben quattro carpigiane: Twin Set, Liu Jo, Blumarine e Manila Grace. Con l’eccezione della prima, controllata da un fondo britannico, sono tutte aziende di famiglia che hanno saputo rinnovarsi e curare meticolosamente i propri brand.

Le persone
Logico che proprio da questo groviglio armonioso di imprenditoria locale, e dalla sua voglia di mettersi a disposizione della città - che sia per i restauri post-terremoto del 2012 o per salvare la squadra di calcio locale poco importa – sia nato il “nuovo” Carpi. Soci di riferimento della società sono Stefano Bonacini e Roberto Marani, fondatori e titolari del marchio Gaudì: 60 milioni di fatturato, delocalizzazione attenta ma testa del business in Emilia, un piano di espansione ambizioso sui mercati esteri, Cina ed Emirati in primis. Azionista di minoranza e presidente è invece un altro self made man del tessile carpigiano come Claudio Caliumi, patron della griffe di moda femminile Marilena. Completa il quadro lo sponsor di maglia, quella stessa Blumarine di proprietà della famiglia Tarabini già decantata dagli analisti di Pambianco. Merito loro se la provincia di Modena è stata l’unica nel dopoguerra (e la terza della storia del calcio italiano dopo Genova e Torino) a portare tre squadre diverse in serie A. Se aggiungiamo che anche il proprietario dell’Hellas Verona, Maurizio Setti, nella vita di tutti i giorni fa l’imprenditore a Carpi, il quadro è completo. Anzi no. Completo lo è solo se si riconosce a Bonacini, Marani e Caliumi di non aver messo bocca, al contrario di ciò che fanno parecchi presidenti con le loro società, nella gestione tecnico-sportiva del business, lasciando le chiavi a un altro fenomeno cresciuto in casa: Cristiano Giuntoli, ds con un passato recente da attaccante tra LegaPro e serie D, campionati che conosce come le sue tasche e dove ha pescato a costo zero o quasi parecchi elementi della rosa promozione. Come l’attaccante Kevin Lasagna, ingaggiato dalla sconosciuta Este per 12mila euro e considerato uno degli artefici della promozione, oltre che una plusvalenza vivente.

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I numeri
Ecco, i conti. Anche quelli sono fondamentali per comprendere le dimensioni del miracolo. Il Carpi quest’anno ha messo in campo un budget inferiore ai 4,5 milioni e non molto più alto di quello della stagione 2012/2013 conclusa con la promozione in B. La scorsa estate, dopo un anno di assestamento, il bilancio si è chiuso addirittura in utile, una rarità nella serie cadetta, anche se soltanto di 51.922 euro. Anche la scalata alla serie A ha avuto un prezzo ridicolo, se confrontato con le cifre che nonostante la crisi continuano a circolare ai piani alti del nostro calcio: i biancorossi hanno movimentato cash rilevante solo per l’acquisto di Lollo dallo Spezia (per 100mila euro, comunque uno dei cartellini più cari della rosa) e per la cessione di Laurini all’Empoli (450mila), generando così già una plusvalenza teorica. Il resto dei nuovi giocatori è arrivato dai campi dilettanteschi, oppure in prestito o a parametro zero. Caso emblematico quello di Jerry Mbakogu, prelevato dal fallimento del Padova e ora valutato dagli addetti ai lavori non meno di cinque milioni di euro. L’età media del parco giocatori è inferiore ai 24 anni e lo stipendio più alto non raggiunge i 150 mila euro lordi a stagione, a cui ne andranno aggiunti almeno altrettanti di premi per l’insperato risultato raggiunto. A conti fatti l’intera rosa del Carpi, tra cartellini, stipendi e spese di gestione è costata tre milioni di euro. Ma secondo il sito specializzato Transfermarkt ne vale già almeno 18. Un affare colossale, soprattutto considerato che alla torta dei ricavi nel 2015/2016 andranno aggiunti quei diritti tv già spauracchio del vicepresidente Figc Claudio Lotito, e anche nell’ipotesi peggiore di una retrocessione immediata il 2016/2017 porterà in dote altri 10 milioni di paracadute concesso dalla Lega Calcio.

L’incognita stadio
Ma da queste parti, come l’esperienza del terremoto insegna, gli scenari tragici vengono messi regolarmente in disparte e si pensa solo a costruire e migliorare. Per questo ora tutti chiedono a gran voce che la favola prosegua, e che possa proseguire fra le mure amiche. L’incognita maggiore del prossimo campionato riguarda infatti lo stadio di casa. Lo storico impianto carpigiano, il Sandro Cabassi, dispone di soli 4.160 posti e già in B è stato utilizzato grazie a una speciale deroga, non replicabile in A. In soccorso della società arriverebbe comunque la legge 210/2005, che prevede che si possa giocare in Serie A con uno stadio da 10 mila posti se si rappresenta una città con meno di 100 mila abitanti e si sia promossi per la prima volta negli ultimi venti anni. Ma servirebbero comunque 5.840 nuovi posti da montare entro l’estate: l’unica soluzione possibile, a un costo contenuto, è quella di applicare strutture modulari. I vertici e il comune ci stanno pensando e secondo quanto risulta a Panorama.it avrebbero già sondato due società specializzate, anche se l’esborso non sarebbe da poco. Si parla infatti di una cifra compresa tra 1,5 e 3 milioni di euro, che andrebbero sottratti alla necessaria campagna di rafforzamento sportivo. Più probabile, dunque, che si finisca per giocare a Parma, Modena o a smezzare il Mapei Stadium di Reggio Emilia con i cugini e vicini di casa del Sassuolo. Dando vita a un derby inedito e che fino a pochi anni fa sarebbe apparso preso di peso da un racconto di fantascienza.

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Gianluca Ferraris

Giornalista, ha iniziato a scrivere di calcio e scommesse per lenire la frustrazione accumulata su entrambi i fronti. Non ha più smesso

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