Da Belgrado a Port Said: calcio, politica e follia
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Da Belgrado a Port Said: calcio, politica e follia

Da tempo nelle zone calde del pianeta gli stadi diventano terreno di battaglia: ecco alcuni storici precedenti di Serbia-Albania

Sulla tratta Belgrado-Tirana è ancora notte fonda. Colpa di una partita di calcio che partita non è stata perché la rabbia sugli spalti ha prevalso sulle logiche del gioco, scatenando la follia e la violenza di tifosi che tifosi non sono e forse non lo sono mai stati. Serbia-Albania, gara valida per le qualificazioni all'Europeo del 2016, si è consumata in 40 minuti. Prima tra gli sfottò e l'irruenza dialettica delle due tifoserie, rappresentanti illegittime ma pure verosimili di Paesi opposti e contrari per ragioni storiche e politiche. Poi con un tafferuglio in stile Far West che ha preso forma sul terreno di gioco e che ha fatto temere il peggio. Il via libera allo scontro arriva al minuto 41, quando fa capolino sul campo di gioco una bandiera della Grande Albania (della quale il Kosovo faceva parte prima di diventare territorio serbo) trasportata da un drone che secondo la polizia di Belgrado è stato pilotato a distanza da Orfi Rama, fratello di Edi, il premier albanese. Benzina sul fuoco.

Minuto 41: a Belgrado inizia la follia

Il difensore serbo Aleksandar Mitrovic afferra il vessillo e inizia il caos. Perché due giocatori albanesi si gettano su di lui senza troppi convenevoli per strappargli il vessillo e difendere la causa. Da lì alla baruffa generale il passo è breve e coinvolge anche le panchine in un valzer da bollino nero che soltanto per la saggezza di alcuni non si trasforma in tragedia. Ad aggravare le cose, la discesa in campo di alcuni ultras che riescono a evitare l'imponente sbarramento delle forze dell'ordine di casa, contribuendo a modo loro (il centravanti albanese Bekim Balaj riceve una sedia di plastica sulla schiena) ad alzare i toni dello scontro. Tra gli esaltati, c'è anche Ivan Bogdanov, detto Ivan 'Il terribile'(leggi qui il suo profilo) per via del suo talento nel cacciarsi nei guai. Fu il protagonista assoluto della partita Italia-Serbia del 2010, sospesa perché altro non si poteva fare. Ha fatto lo stesso ieri a Belgrado l'arbitro inglese Atkinson, che ha richiamato le squadre negli spogliatoi nell'attesa di tempi migliori. Che però non sono mai arrivati. Gara chiusa prima del tempo e tanti cari saluti allo sport.

Quando Boban prese a calci un poliziotto

Nella zona dei Balcani tira aria pesante più o meno da sempre. Anche negli stadi del pallone. L'episodio più emblematico risale al 13 maggio del 1990, in occasione della gara di campionato tra i croati della Dinamo Zagabria e i serbi della Stella Rossa Belgrado. Gli ultrà di casa caricano con armi e sedie strappate all'impianto gli ultrà avversari, che rispondono con pari intensità all'affronto. Intervengono in forze gli agenti di polizia, di maggioranza serba, che usano il pugno duro soprattutto contro i tifosi della Dinamo. Gli scontri si spostano anche sul terreno di gioco e coinvolgono alcuni giocatori della squadra di casa, che rimangono a terra feriti. Rischia tantissimo anche l'ex centrocampista del Milan, Zvonimir Boban, che sferra un calcio a un agente responsabile di aver malmenato un tifoso croato: verrà portato in salvo in tutta fretta. La Federcalcio jugoslava condanna Boban a 9 mesi di squalifica, mentre a Zagabria si parla di lui come di un eroe nazionale. Pochi mesi dopo scoppierà la Guerra d'indipendenza croata.

Le stragi di Dakhla e Port Said

E' da anni che il calcio è diventato il palcoscenico privilegiato per rivendicare rivalità politiche e sociali colme di odio e di intolleranza. Tra i tanti salti nel vuoto degli ultimi tempi, ricordiamo la tragedia di Dakhla, in Marocco. Il 25 settembre del 2011, al fischio finale della partita valida per il campionato nazionale tra il Mouloudia e il Chabab Al-Mohammadia le forze dell'ordine caricano con una violenza inaudita i sostenitori della squadra di casa, che avevano organizzato cori a favore dell'indipendenza del Sahara Occidentale. Sull'asfalto rimarranno i corpi senza vita di 7 persone. Poco distante, a Port Said, nel nord dell'Egitto, alcuni mesi più tardi fu vera e propria strage. Al termine dell'incontro tra la squadra locale, l'Al-Masri, e la squadra ospite, l'Al-Ahly, si scatena la ferocia degli ultrà di casa, che entrano in campo per sfogare la propria delusione sui giocatori avversari. I poliziotti fanno fa scudo ed è guerra. Nei giorni successivi, il bilancio definitivo sarà di 73 morti. “Abbasso Morsi e i Fratelli musulmani”, gridano amici e familiari dei 21 tifosi arrestati, tutti di Port Said. Egitto senza pace, tra rivoluzioni e speranze, prospettive e disfatte, talvolta travestite da partite di pallone.

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Dario Pelizzari