Il calcio e la retorica: è la solita Italia di adulatori e fustigatori
Nel fermo immagine tratto da Sky il difensore dell'Italia, Giorgio Chiellini mostra la spalla dopo il morso dell'attaccante dell'Uruguay Luis Suarez durante i Mondiali in Brasile, 24 giugno 2014. ANSA/FERMO IMMAGINE SKY +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++
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Il calcio e la retorica: è la solita Italia di adulatori e fustigatori

L'uscita dell'Italia dal mondiale è lo specchio del paese e dei giornali: dall'euforia al dramma

La retorica calcistica è la nostra ultima emergenza nazionale. E’ arrivato il momento: qualcuno fischi e fermi per più turni i giornalisti calcistici che dopo l’uscita della nazionale di calcio dal mondiale brasiliano sono passati dall’elogio più strepitoso al lutto più drammatico.

Nella sconfitta dell’Italia pallonara c’è quel solito e antico festival della di smisura, il disastro sportivo che si trasforma in sciagura di paese. Improvvisamente è infatti tornato il giornalista ultras, lo stesso che dopo la vittoria contro l’Inghilterra parlava di una squadra luminosa e che invece subito dopo la partita contro l’Uruguay maramaldeggiava sulla nazionale umiliata. E subito è scattata una lotta tra giornali per definire con iperboli e metafore “l’Italietta” sconfitta che meritava di tornare a casa e analizzare il suo tramonto non solo sportivo ma estetico, politico e morale. Dunque per Repubblica l’uscita dalla competizione «è la notte del calcio perché è buio in Italia». Ed è una fine economica per La Stampa:«”All’italiana” non si può più fare. Tocca faticare tutti, aziende, partiti, sindacati».

Ma il culmine si ha di nuovo sul giornale fondato da Eugenio Scalfari che si arrampica fino a comparare la sconfitta nel football quasi al tracollo del capitalismo: «I campioni sono (…) tutti ricattati e drogati dal denaro». Non è solo una cascata di parole che contagia i “dottori” del calcio. Ebbene, in queste frasi ci sono tutte le banalità che utilizzava il “filosofo” del luogo comune Massimo Catalano in “Quelli della notte” di Renzo Arbore, quel riflesso che ci fa legare al calcio le sorti della nazione, delegare il made in Italy nei piedi di Andrea Pirlo, affidare nelle mani di Gianluigi Buffon la solidità dei conti pubblici. L’idea del calcio come destino da cui dipende la floridezza economica e politica è ormai un virus diventato epidemia. Così, come un tempo, è ritornata ad echeggiare anche la parola “patria” che Prandelli ha somministrato come rigenerante ai suoi giocatori.

Ed è stato un invito, una marcetta irrinunciabile, la sirena a cui non poteva resistere nessun cronista. Da allora il momento è stato «solenne», l’inno di Mameli è stato cantato «con grande trasporto, anzi con viva e vibrante partecipazione» e il coro sembrava diretto da Giuseppe Verdi perchè «tutto rafforza per non dovere rimpiangere (…) la patria sì bella e perduta». Prima ancora che si giocasse (e si perdesse) la politica voleva lottizzarsi la sicura vittoria perché Prandelli «è un renziano di ferro» e la sconfitta è quindi «la prima sconfitta di Renzi». E ci vorrebbe ancora il raffinato dantista Vittorio Sermonti, lui che nel 1982 aveva passato in rassegna filologicamente tutti i deliri della stampa italiana, per canzonare l’ultima prova di adulazione fatta a un primo ministro per interposta persona a opera di Gianni Riotta su La Stampa: «L’ufficialità del disastro è venuta alle 19:20, quando Nomfup, nome Twitter di Filippo Sensi, arguto portavoce del presidente del consiglio Matteo Renzi ammette sconsolato “quei momenti in cui non ti senti neanche ct ma resti li appeso a una sgomenta speranza».

Nell’Italia annegata nel pallone c’è sempre l’abuso del “noi” nel successo, come dimostra qualsiasi competizione sportiva , ma c’è pure il vittimismo di Balotelli che si rifugia nel colore della sua pelle come Ettore Petrolini si rifugiava nella guerra «se non c’era la guerra a quest’ora stavo a Londra» per spiegare il fallimento. E se non bastasse c’è inoltre la colpa che è sempre di qualcun altro, in questo caso dell’ attaccante dell’Uruguay Luis Suares che ha morso il nostro Giorgio Chiellini senza che venisse punito dall’arbitro. Pure il morso è diventato bersaglio della retorica e Suarez il nuovo «Dracula», «Hannibal», «un vampiro seriale». Solo adesso l’entusiasmo che ha portato Prandelli a parlare di «trionfo epico e indimenticabile», dopo la vittoria con l’Inghilterra, ci richiama in mente la solita Italia umorale, sussiegosa e spietata, quella che per Leo Longanesi acclama e poi si mette facilmente alle spalle, ieri come oggi nel calcio come nella politica, quel «triste passato nel quale tutti sono stati benissimo».

Eccola manifestarsi definitivamente la dismisura che rende simpatico il tifoso ma che sempre incattivisce chi giudica e chi scrive. Osservate oggi come cambiano i titoli dei quotidiani prima nella vittoria e dopo nella sconfitta: «Con la tecnica e la testa, l’Italia batte ancora l’Inghilterra»; «questa nazionale nasce da una coscienza di inaffidabilità»; «L’Italia di Prandelli le ha suonate eccome all’Inghilterra di Hodgson»; «gli azzurri rottamati di ieri mettono di pessimo umore». Non è un cambio di campo solo calcistico (ricordate il sottosegretario del Pd, Stefano Fassina, passato dal definire Renzi «un ex portaborse» a «è l’uomo giusto»?) ma bensì il successo della simulazione che non a caso è una componente della retorica. Insomma, in questa relatività e instabilità di giudizio, solo quell’uomo che veste di nero e che trottola in mezzo al campo sotto la corrida di urla, testate e istinti cannibaleschi, salverà l’Italia. E’ sempre l’arbitro cornuto a rimanere l’unica, intramontabile e unanime certezza.

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Carmelo Caruso