Dal Real Madrid alla Juventus: la Champions tutta al contrario di Morata
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Dal Real Madrid alla Juventus: la Champions tutta al contrario di Morata

Dalla vittoria in borghese nel 2014 al ruolo di attore protagonista nella semifinale 2015: l'evoluzione di un bomber che sa sempre cogliere l'attimo

Diceva Mao Zedong che la rivoluzione non si può fare con eleganza, serenità e grazie, perché è un atto di violenza. Ecco, la vera grande rivoluzione di Alvaro Morata da Madrid inizia ufficialmente il 5 maggio scorso, sotto le stelle dello Juventus Stadium. I bianconeri apparecchiano la tavola per l'arrivo del Real dei galattici, brigata di milionari col vizio del bel calcio, e lui, Alvaro, che sotto le insegne della Casa Blanca ha speso i migliori anni della prima parte della sua vita, si lustra gli scarpini per far bella figura davanti ad amici, parenti e vecchi fantasmi. Allegri ha visto nei suoi occhi la tempesta perfetta. Il sogno oltre il confine. E allora, fuori i secondi (leggi Llorente), inizia la battaglia. La Juve conta su Morata per scardinare le trincee scavate nel terreno da Ancelotti. Il compito, già scritto: correre oltre le linee nemiche e girare telegrammi carichi di classe al compagno di reparto, un Apache di nome Tevez travestito da Capitan America. Roba da misurarsi la glicemia perché il trionfo di zuccheri è da pronto soccorso. La prima sentenza arriva al minuto 8. Morata fa l'Inzaghi vecchia maniera. Si inventa uno spazio e lo colora di immenso. Juve in vantaggio, Real ferito nel profondo. Si può fare, si deve fare. Fatta.

Chi gli vuole bene, svela intuizioni ricche di gloria. In Spagna, dicono somigli a Fernando Morientes per quel miscuglio appassionante di eleganza e intuizione, velocità ed efficacia. Segna da sempre, Alvaro da Madrid. Da quando produceva mirabilia in terza divisione con la casacca del Castilla, succursale da leccarsi i gomiti del Real dei miliardari in calzoncini corti. Trentatré gol in 65 partite: a 20 anni, Morata incanta e seduce. Nel 2012-13 segue il Castilla in Segunda División. Si alza l'asticella, non cambiano le dinamiche. Il ragazzone che studia per diventare fenomeno combatte come un toro e stimola la fantasia dei tantissimi che cominciano a credere in lui. Dodici volte gol. In 18 partite. Perché nel frattempo, José Mourinho, che aveva preso casa a Madrid giusto in tempo per vedere da vicino i suoi progressi sul campo (la prima volta nella Liga del giovane Alvaro capita il 12 dicembre del 2010, un minuto e nulla più, dice Mou), gli assegna un armadietto nella pancia del Bernabeu. Morata part-time tra i galattici. Il gol che definisce la linea di confine tra la promessa e la premessa nasce a Valencia, nel fortino del Levante. Alvaro entra e segna. E decide la gara. Gli capiterà spesso nei mesi successivi. Toccata e fuga per la vittoria. La stagione va in naftlatina con due reti in 399 minuti diluiti in 12 presenze. Da pensiero a speranza. Il fuoco divampa.

L'esultanza di Andrea Agnelli

Via Mourinho, dentro Ancelotti. La qualità è da urlo, lo spazio è poco. Ronaldo, Benzema, Bale, Di Maria, giusto per citare gli incursori più arrembanti, chiedono e ottengono spazio. Lo avrebbero ovunque, senza nemmeno bisogno di alzare la mano. Carletto lo sa e procede di fino, distribuendo minuti come fossero gocce d'oro. Soltanto a chi merita, soltanto a chi spetta. Morata fa il saggio. E firma la sua condanna a diventare bomberone. Nella Liga, subentra a gara in corso in 20 occasioni su 23. E pratica il suo mestiere con l'avidità dei predestinati: 8 reti in 558 minuti. Uno ogni 69 minuti. Meglio del titolarissimo Benzema (163), meglio - e qui sta la notizia da prima pagina - di un certo CR7 (81). Fermi tutti, qui si fa sul serio. A fine maggio il Real infarcito di bellezza completa l'abbuffata: l'Atletico di Simeone buca in volata e consegna la Champions League ai cugini. La Decima chiude il cerchio e determina lo scenario. Ancelotti sfila col frac tra i monumenti della storia in camiseta blanca e pensa al domani con la gloria nel taschino. Tutto va benissimo. Anzi, no. Non potrebbe andare peggio. Almeno per Morata, che festeggia da tifoso la conquista dell'ennesimo trionfo della sua giovane carriera, epperò capisce che per lui è la fine di un percorso meraviglioso. Per diventare attaccante con i fiocchi, protagonista vero, ha bisogno di fare esperienza altrove. Senza marziani a contendergli la maglia da titolare. 

La Juve annusa l'affarone e ci si tuffa col cappello. A luglio Morata è bianconero per 20 milioni di euro. E' un acquisto fatto e finito, da mandare agli archivi. O quasi. Sì, perché il Real, che pure sforna banconote con la velocità di un pollo da batteria, si vuole regalare uno spicchio di futuro. La clausola che fa tremare oggi i tifosi dell'arzilla Signora è un inno alla paura. Eccola: al termine delle stagioni 2015-16 e 2016-17 Morata può tornare a casa in cambio di 30 milioni. Nero su bianco. Sul momento, è un sospetto e nulla più. Ora è un tormento. Sì, perché nel corso della stagione - iniziata a onor del vero nel silenzio dell'infermeria per via di un infortunio rimediato in allenamento - Alvaro da Madrid mette la freccia e sorpassa il connazionale Llorente, che con Allegri fatica a ripetere le grazie dell'anno precedente. L'intesa con Tevez sa di buono dal primo istante. I due si intendono e si divertono. In comune, hanno la passione per il motto del professor Keating alias Robin Williams: cogli l'attimo. Lottano su ogni pallone, sgomitano e scalciano come se non ci fosse domani. Non suonano il campanello, sradicano la porta. In campionato e pure in Champions, Morata si esalta e gli effetti sono estatici. Con due gol stende il Borussia Dortmund nei quarti. Con due gol stende il Real nelle semifinali. Il "suo" Real, la squadra che non ha saputo ricambiare il suo amore al momento opportuno. A Torino come a Madrid non ha esultato. Chiedetegli di onorare il vostro nome. Non chiedetegli di rinunciare alla memoria. 

Alex Livesey/Getty Images Sport
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Dario Pelizzari