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Claudio Lotito, l'uomo che volle farsi "Lotutto"

Vita e segreti dell'uomo che ha risanato i conti traballanti della Lazio riportandola vicino alla testa del campionato

Il 15 giugno del 1987, quando Steve Wilhite, un informatico dell’Ohio, inventò la Gif (Graphics interchange format), non poteva certo sapere che in Italia avevamo un uomo che era già un formato grafico animato, pronto alla diffusione virale. Claudio Lotito, il presidente della Lazio, è la Gif di se stesso. Quando parla gesticola in modo compulsivo come l’italiano delle barzellette, anche se al posto di «Mamma mia» ama dire a ripetizione cose come «illo tempore», «erga omnes» ed «effetto prodromico».

Una sequenza tipo di Lotito Gif prevede le mani ben aperte che convergono verso il petto nel classico segno del «ci penso io»; poi le mani che tornano verso il pubblico e si allargano tipo Cristo pantocratore; infine, di nuovo giunte ma puntate verso l’uditorio come a dire «Ma stiamo scherzando?». E c’è anche una variante non meno seriale, con i due indici puntati verso il cielo, che utilizza quando vuole essere ascoltato con le orecchie bene aperte. Vuole essere ascoltato e ne ha diritto, perché ora che la sua squadra è in zona scudetto, con i bilanci in ordine e una tifoseria quasi completamente ripulita da nazi e spacciatori, va riconosciuto che ci sa fare. E anche il soprannome «Lotirchio» è ingeneroso. In quindici anni, la sua Lazio è la squadra che ha vinto di più dopo la Juventus (tre Coppe Italia e due Supercoppe) e ha triplicato il valore di Borsa.

Per capire il personaggio si deve partire da un aneddoto. Nel 2001, al ministero dell’Economia torna Giulio Tremonti e nei primissimi giorni di lavoro in Via XX Settembre a un suo stretto collaboratore capita un episodio bizzarro. Non fa a tempo a prendere possesso del proprio ufficio che vede lampeggiare il telefono, alza la cornetta e dall’altra parte una voce dice: «Salve, so’ Lotito, quello delle pulizie». Il giovanotto risponde: «Forse ha sbagliato numero». Ma dall’altra parte insistono: «No, no, non ho sbagliato. Volevo che dicesse al ministro che a noi ci interessa Vincenzo Fortunato come capo di Gabinetto, grazie». Non era uno scherzo. Aveva l’appalto delle pulizie al Tesoro e in altri ministeri, oltre che della Regione Lazio e di vari enti pubblici. I suoi amici di An, da Francesco Storace, allora presidente della Regione Lazio, a Gianfranco Fini, che era vicepremier, erano sulle poltrone giuste. Quanto a Fortunato, ovviamente finì dove voleva Lotito.

Ma c’è molto del futuro presidente della Lazio anche in quel «noi», dietro al quale non si nascondevano certo né una loggia massonica (è cattolicissimo, gira con il rosario in tasca), né una lobby, né un partito (nel 2018 si è candidato per Forza Italia al Senato, ma ha fallito di un soffio il seggio). Il plurale maiestatis, come direbbe lui, indica Lotito, Lotito e ancora Lotito. Non a caso è detto anche «Lotutto» per una certa bulimia, che lo ha portato a comprarsi anche la Salernitana insieme al cognato Marco Mezzaroma (il Sor Claudio ha sposato sua sorella Cristina, dinastia di palazzinari). Perché «Lotitochefacose» è così: se gli dai un uditorio, com’è successo mercoledì 18 dicembre, quando ha voluto incontrare i corrispondenti stranieri all’Associazione Stampa estera per spiegare che la Lazio non ha più una tifoseria fascista e razzista, ha parlato a raffica e già che c’era ha anche concesso un paio di lezioncine di giornalismo. Sventolando lo status di «collega» al grido di «Ho il tesserino in tasca, so’ ggiornalista dal 1978!» (ora risulta iscritto sull’albo dei pubblicisti dal 26 luglio 2004, ndr), ha spiegato che «quando si scrive non bisogna fa’ i processi» e ha tessuto l’elogio dei «capiservizio di una volta, che te controllavano tutto». Poi, si è congedato con una simpatica profezia: «I giornali tra cinque anni non conteranno più nulla». Ma ha anche regalato una battuta definitiva sui saluti romani allo stadio: «Che posso mettere un poliziotto per tifoso a vedere se alza il braccio, abbassa il braccio, rialza il braccio? Facciamo lo stadio con 18 mila tifosi e 18 mila poliziotti? È solo fariseismo». Del resto, Lotito ha parlato con i fatti: ha portato la squadra ad Auschwitz, ha affrontato i fan delle svastiche a muso duro, beccandosi contestazioni e insulti di ogni tipo e 15 anni ininterrotti di scorta armata.

E se in curva vanno spesso i cosiddetti avanzi di galera, lui invece è a tutti gli effetti definibile un avanzo di parrocchia. Anzi, di oratorio. Cita «Nostro Signore Gesù» in continuazione e al sabato pomeriggio, nel centro di Formello, fa dire la messa per i giocatori. Figlio di un dirigente di polizia e di una casalinga, il futuro presidente biancoazzurro, classe 1957, è cresciuto nel Reatino, studiando sodo e prendendosi una laurea in pedagogia alla Sapienza con il massimo dei voti. Nonostante la statura non lo aiutasse, da ragazzo ha giocato in porta. Poi, appesi i guanti, è passato dalla Virtus Amatrice all’amatriciana. Pranzare con lui è un’esperienza forte. È stato visto ingurgitare i bucatini direttamente dalla pirofila, con la forchetta in una mano e il cellulare nell’altra (pare ne abbia quattro) in una versione 2.0 di Aldo Fabrizi. Ed è solo quando lo s’incontra all’opera in una delle trattorie del centro storico che si comprende l’esatto significato del verbo «attovagliarsi». Celebre, una foto che lo ritrae alle prese con una cofana di pasta e Andrea Agnelli, abituato alla noia trattenuta delle colazioni di lavoro alla Country house del circolo del golf della Mandria, che lo guarda divertito.

Vent’anni dopo Lotito delle pulizie, capace di superare una serie di guai giudiziari tra assoluzioni, archiviazioni e prescrizioni, viene intercettato (al ristorante, ovvio) con l’amico giudice Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, mentre si discute di nomine, inchieste e Csm. E nel giugno di quest’anno, decide di salvare Alitalia e presenta un’offerta ai commissari. Che c’entra lui? Boh, ma Lotutto è così. Dev’essere al centro di ogni cosa, come quando è all’Olimpico e la tribuna d’onore diventa la passerella delle sue conoscenze altolocate, tra politici, attrici, generali dei carabinieri e gli immancabili prelati. Avere un ministro o dei vip tra le seggioline della Monte Mario non equivale ad avere chissà quale potere, ma per Lotito è una gratificazione sociale, che lo ripaga anche delle tante amarezze riservategli da una tifoseria che non l’ha mai amato. E che pure dovrebbe essergli grata perché ha salvato la società, ha il bilancio in utile, paga con puntualità svizzera le rate del decreto spalma-debiti con cui Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi salvarono la Lazio. Era il 2005, centinaia di tifosi assediarono gli uffici del ministero delle Finanze all’Eur, ma non è vero che fu fatta una grande forzatura. Prima di firmare l’accordo con Lotito, ci fu una lunga notte di consulti all’Avvocatura generale dello Stato e solo dopo fu dato il via libera. La Lazio doveva versare 140 milioni al fisco e se l’avessero fatta fallire non sarebbero stati recuperati gli 80 milioni che Lotito ha versato e verserà fino al 2023. Adesso la società, che 15 anni fa fatturava 84 milioni (perdendone 86) e soffocava sotto il peso di 550 milioni di debiti, ha chiuso il 2017-2018 in utile di 38 milioni su 120 di fatturato. E anche se quest’anno è sotto di 13 milioni, il parco giocatori è valutato 600 milioni e gli immobili ne valgono altri 200.

Storace ha raccontato come Lotito comprò la Lazio nel luglio 2004: «La Banca di Roma chiese alla Regione se veramente Lotito vantasse dei crediti verso la stessa. Noi rispondemmo di sì, perché così era. E con quei crediti comprò la Lazio che era destinata al fallimento».

L’ex governatore è un noto tifoso giallorosso e al pari di un altro compagno di fede romanista come l’avvocato Carlo Taormina si è fatto scappar detto quello che mormoravano un po’ tutti nel vecchio giro di Giulio Andreotti e Cesare Geronzi quando Lotito si fece consegnare la Lazio: «Ma come, non era della Roma?». Lui ha sempre smentito e pare che l’equivoco si sia creato solo perché chiedeva i biglietti per la tribuna vip da dare poi a chissà chi. Essere laziale, o apparirlo soltanto?

Che cosa sia sostanza e che cosa sia apparenza, del resto, il pedagogo Lotito lo sa bene. Ama citare Immanuel Kant, con la sua distinzione tra noumeno e fenomeno, accusando la società di oggi di «basarsi sulle apparenze». Lui non è tipo da Instagram ed è proprio quello che tutti vediamo. La prova che una Gif animata può insegnare qualcosa. Per esempio, come non svenarsi con una squadra di calcio e farla anche giocare bene. n

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Francesco Bonazzi