Bryant elogia gli europei, ma 3000 americani giocano in Europa..
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Bryant elogia gli europei, ma 3000 americani giocano in Europa..

Kobe ammette la superiorità della scuola basket del Vecchio Continente, che però "importa" ancora migliaia di giocatori USA

“I giocatori europei sono tecnicamente migliori degli americani. Il motivo è che vengono istruiti su come giocare nel modo corretto già in tenera età, e questo è qualcosa che negli Usa manca ormai quasi totalmente”.

E se lo dice uno come Kobe Bryant viene davvero da credergli. Non solo per il suo pedigree  –fatto di 5 titoli Nba e una lunga serie di premi e record individuali – ma anche perché Kobe, figlio di quel Joe Bryant che dal 1984 al 1991 giocò a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e infine a Reggio Emilia, in Europa ci è cresciuto sul serio, imparando alcuni degli skills (capacità tecniche, appunto) che lo hanno reso il giocatore che è oggi.

Negli USA le parole di Bryant hanno aperto un acceso dibattito e molti addetti degli lavori si sono detti d’accordo con le parole del Mamba. Alcuni, per avvalorare la loro presa di posizione, hanno citato un altro fenomeno ed enfant prodige come Lebron James– anche lui, come Bryant arrivato in Nba senza passare dal college – che aveva parlato già parecchio tempo addietro di una superiorità tecnica dei giocatori di area Fiba. 

Sembrerebbero quindi tutti d’accordo, o quasi, nel sostenere la superiorità della scuola europea su quella americana, se non altro nella formazione tecnica dei giocatori. Eppure se guardiamo i numeri da questa parte dell'Oceano le cose sembrano un po’ diverse. Su un totale di 6.717 giocatori professionisti statunitensi che giocano oltre i confini – principalmente in Canada (254), Messico (265),  Australia (215) e Argentina (122) – ben 2.963 popolano i campionati del Vecchio Continente. Il dato, fornito dal sito usbasket.com, tiene conto anche delle leghe di seconda divisione  –quindi, per esempio, anche della Legadue italiana – ed è una cartina di cartina tornasole di come gli scout europei siano ancora oggi i primi ad essere attirati dai giocatori d’Oltreoceano. In primis, i selezionatori dei campionati più competitivi, vedasi quello spagnolo (220), francese (280) e tedesco (primo in questa classifica con addirittura 555 americani).

Non fa eccezione il campionato italiano che con 201 giocatori provenienti dagli States dimostra come nonostante la reale, o presunta, superiorità tecnica della nostra scuola di basket i giocatori americani siano ancora il sogno bagnato della gran parte dei general manager (che da noi si chiamano direttori sportivi). Nella maggior parte dei casi il motivo risiede nella superiorità fisica dei giocatori di colore americani e nella loro personalità – sviluppata prima sull’asfalto dei playground e poi nel seguitissimo campionato universitario (la Ncaa), ahinoi ben altra cosa rispetto alle nostre leghe giovanili –.

Ma c’è di più. La legge Bosman del 1996, che ha aperto le porte all’arrivo di giocatori comunitari a basso costo (molti dei giocatori americani in Europa hanno acquisito il doppio passaporto) così come la successiva legge “Sheppard” hanno di certo influito. Mentre guardandola dal punto di vista dei giocatori Usa l’incentivo a migrare in Europa appare evidente: i principali campionati europei infatti garantiscono, rispetto alla D-League americana – il campionato dove finisce chi non riesce ad entrare in Nba –, salari da 3 a 10 volte superiori rispetto alla lega di sviluppo americana; senza considerare che nel Vecchio Continente sono le società a pagare le tasse dei propri giocatori, cosa che non accade al di là dell’Oceano.

Fatta eccezione per la Russia – dove una norma impone due giocatori nazionali sempre in campo – e la Serbia rispettivamente con 54 e 7 giocatori USA, in molti casi sembra esserci una tendenza ad acquisire giocatori americani a prescindere. E così in Italia - per fare un esempio "non" a caso – gran parte di giovani talenti autoctoni vengono quasi sempre relegati in panchina, in quei 5 posti obbligatori per regolamento, o peggio confinati nelle leghe semi-professionistiche che li proteggono solo in parte – possono essere tesserati solo giocatori con cittadinanza italiana – ma che di certo non consentono loro di compiere gli step necessari per giocarsela al livello dei grandi.

Se le parole di Kobe – che ha anche evidenziato come molti giocatori cresciuti in Europa stiano dominando nell'Nba di oggi – hanno una base di veridicità, e quindi la scuola europea è capace davvero di insegnare pallacanestro Oltreoceano, per il momento dobbiamo rispondergli che purtroppo da questa parte dell'Atlantico stiamo ancora aspettando di riscuotere i risultati. 

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Teobaldo Semoli