Belgio - Usa raccontata da un bar di Brooklyn
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Belgio - Usa raccontata da un bar di Brooklyn

Abbiamo seguito la nazionale Usa insieme agli American Outlaws, il gruppo di tifoseria organizzata che segue la squadra di calcio a stelle e strisce - Speciale mondiali

“I believe that we will win…I believe that we will win”. Il grido dei tifosi americani, una specie di inno militaresco che si è propagato come un virus durante questi mondiali, viene sbraitato subito dopo l’inno nazionale da uno speaker di fortuna in piedi sul bancone del bar. E’ il segno che si inizia a fare sul serio. Per la verità gli avventori del Lonestar, bar della Brooklyn popolare, fuori dalle tendenze hipster e dalle rotte della Lonely Planet, fanno sul serio da parecchio tempo. Certamente da prima che il calcio, anzi il soccer, diventasse un affare nazionale, con un terzo dell’America incollata allo schermo a fare imbestialire i puristi dell’orgoglio nazionale, che lascerebbero volentieri agli europei e ai sudamericani il primato in questo ambito. Ma il Lonestar è la casa degli American Outlaws, il gruppo degli ultrà della nazionale americana, gente che versa regolarmente quote di partecipazione per sostenere la squadra, e con orgoglio mostra la maglietta della sussidiaria di Brooklyn. “I believe that we will win”, gridano gli Outlaws, e non potrebbe esserci inno più azzeccato, ché qui si tratta di crederci, di sperare contro ogni speranza, di alimentare un sogno, un fatto di fede più che di ragione. A mente fredda tutti i quattrocento e rotti tifosi presenti ammetterebbero che il Belgio è decisamente più attrezzato della squadra di Klinsmann, ma di menti fredde non se ne vedono molte in giro. C’è solo adrenalina, carica, un certa sorridente sovreccitazione – gli americani vivono il calcio in modo più gioioso e meno nervoso rispetto agli europei – ettolitri di birra light, sudore, salsa barbecue bruciacchiata, bandane a stelle e strisce: va in scena lo spettacolo trionfante, talvolta ingenuamente beota per l’occhio europeo consumato dal cinismo, dell’America nella sua versione calcistica.

I caporioni di questa curva di quartiere, quelli che hanno diritto a poggiare i gomiti sul bancone, a giudicare dagli sguardi sembra siano in quel backyard fumante dalla sera prima. E non è detto che non sia così. Ci sono schermi ovunque, ma Jonathan spiega subito che per superstizione bisogna guardare la partita in quello installato sopra il bancone esterno, che ha una metà con i colori troppo saturati ed è girato in modo che il sole delle quattro del pomeriggio si abbatte proprio lì per quarantacinque minuti buoni, ma poco importa, per un paio d’ore di relax c’è il bowling. A differenza di quanto accade normalmente negli sport americani, qui i tifosi cantano l’inno nazionale e si esaltano quando inquadrano la pantegana bionda che scandisce lo “star-spangled banner”, teutonico accolto nella trasversale patria dei migranti e idolo assoluto dell’America calcistica. “I believe that we will win” rimbomba sempre più forte, e migliaia di birre e costine più tardi gli Outlaws non potranno che smettere di credere all’impresa di passare gli ottavi di finale dopo essere con merito usciti “alive and kicking” dal girone impossibile. Il Lonestar ammutolisce come accade a tutti i bar di tutte le squadre perdenti di questo mondo, e sulle prime sembra che sul volto dei tifosi si dipinga il ghigno da sportività politicamente corretta di chi dice all’avversario “avete meritato voi”. Ma sul volto degli Outlaws non c’è altro che frustrazione, rabbia, nulla di pacificante, nessun “sarà per la prossima volta”. Andranno avanti a bere ancora per un po’. E domani riprenderanno a cantare “I believe that we will win”.

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