David Blatt e la dura vita dei coach europei in Nba
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David Blatt e la dura vita dei coach europei in Nba

A Cleveland sono tutti contro l'allenatore dei Cavs, scaricato (forse) anche da James. Colpa dei risultati o della diffidenza verso chi viene dall'Europa?

Quante probabilità ci sono che un allenatore “europeo”, alla prima esperienza su una panchina Nba, riesca ad allenare il più “ammericano” (con due “m”, come diceva Alberto Sordi) dei giocatori, numero uno in fatto di sponsor e media, ed icona di quell’egocentrismo misto a machismo tipico delle superstar dello sport d’Oltreoceano? Negli ultimi tempi la domanda è tornata di grande attualità negli States dove il coach di Cleveland David Blatt  – nato a Louisville ma cestisticamente cresciuto in Europa ­– pare aver perso il controllo dei Cavs e e forse anche l’appoggio del loro "padrone" (lo è a tutti gli effetti) LeBron James, amareggiato per gli scarsi risultati di inizio stagione – 18-14 il record al momento –  e che per la prima volta nella sua carriera ha deciso di prendersi due settimane di riposo per un ginocchio sinistro malconcio e una schiena dolente.

Un segnale di resa, dicono alcune fonti vicine alla franchigia, da parte di LeBron che nella sua carriera non aveva mai saltato più di 5 partite consecutive. Sta di fatto che ad aggravare la posizione già traballante di Blatt ci hanno pensato gli infortuni – di James, ma anche di Kyrie Irving e del centro Anderson Varejao, out fino al termine della stagione per la rottura del tendine d’Achille – che stanno decimando i suoi Cavs, oltre che i conitnui rumors a proposito di screzi con il numero 23 che non gradirebbe per niente la gestione tecnica del suo coach.

Alcuni maligni hanno addirittura letto in alcune parole di James, pronunciate all’orecchio dell’amico Wade al termine della partita di Natale contro gli Heat – "Lo abbiamo già fatto. Ci riuniremo ancora e faremo ancora meglio, d'accordo?" la frase incriminata, contenuta nel video qui sotto –, la sua volontà di fare presto ritorno a Miami, come già si fosse pentito della scelta di tornare a Cleveland.

 


“E’ vero che non ho fatto il college – ha dichiarato LeBron a proposito della scena – ma non sono così stupido da dire certe cose davanti a decine di telecamere. E comunque, io e Wade, parlavamo di cose extra-cestistiche..”. Solo un malinteso quindi, come quello di qualche giorno dopo quando James, incalzato dai giornalisti sul rapporto con il suo coach, rispondeva con un laconico “è il nostro allenatore”. 

Insomma se due indizi non fanno una prova una cosa è certa: la vita di un allenatore di scuola europea su una panchina Nba è davvero durissima. Non dimentichiamoci infatti che David Blatt non è uno abituato a essere considerato l’ultimo della classe. Prima di salire sull’aereo per Cleveland infatti, era stato in grado di vincere il campionato italiano, nel 2006 con Treviso, di portare la Russia sul tetto di Europa – nel 2007, battendo la pressoché imbattibile Spagna padrona di casa – e a uno storico terzo posto alle Olimpiadi di Londra 2012, infine di conquistare l’Eurolega 2014 con il Maccabi Tel Aviv, di certo non la squadra favorita alla vigilia della Final Four di Milano. La finale, vinta all’overtime, contro il Real Madrid fu l’emblema del basket di Blatt, quasi totalmente incentrato sull’organizzazione di difensiva – geniali e ormai celebri, almeno per noi europei, alcuni suoi schemi trappola – e sulla forza del gruppo, in grado di tirare fuori il massimo da ogni singolo giocatore.

Tutto il contrario di quanto sta accadendo al momento a Cleveland, che nelle ultime 10 partite è stata la 27esima squadra Nba per efficienza difensiva, la 28esima come percentuale dal campo concessa agli avversari e la 26esima per quella da tre punti. Tutto questo senza considerare quello che ormai è definitivo come “caso Love”, il centro arrivato dai Minnesota Timberwolves come un all star da 26 punti e 12,5 rimbalzi di media a partita e oggi relegato a un ruolo da comprimario – non solo neri numeri – da soli 16.7 punti con 10 rimbalzi di media. Se da una parte un ridimensionamento delle statistiche del giocatore californiano era prevedibile data la presenza (ingombrante) di LeBron, dall’altra le difficoltà tecniche di inserirsi in un nuovo sistema d’attacco che prevede una maggiore circolazione e distribuzione dei possessi – proprio come in Europa – rispetto a quanto accade in gran parte delle franchigie Nba (San Antonio esclusa) sembrerebbero imputabili proprio al coach ex Maccabi.

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Nei commenti su siti sportivi americani ­­– che presi con le dovute molle inquadrano bene il clima che si respira intorno a Blatt – si possono leggere tutti i luoghi comuni del caso: “è inesperto”; “gioca un basket diverso da quello americano” (vero, nda); “è inadatto ad allenare le superstar, che in Europa non ci sono perché i giocatori forti se ne vanno in America…”.  E poco importa se dopo 30 partite il record della squadra di Blatt, se paragonato alla prima stagione di LeBron a Miami – in una squadra sicuramente più forte e più pronta rispetto a Cleveland, che però ha maggiori margini di crescita – fosse di poco inferiore a quello degli Heat dei big three (18-12 contro 21-9) .

Non è facile, o addirittura non è ancora possibile vivere negli USA indossando l’etichetta di “coach europeo”. Basti pensare alle vicissitudini del vero precursore del genere, Mike D’Antoni. L’allenatore della Virginia, ma nei fatti di scuola europea – leggendaria la sua carriera da giocatore nelle scarpette rosse di Milano, di tutto rispetto quella da allenatore tra Olimpia e Benetton Treviso – venne prima osannato, a Phoenix, per il suo basket champagne (per usare un termine calcistico) fatto di corsa, tiri nei primi secondi dell’azione (i famosi “seven seconds or less”), di penetrazioni ed extra pass, e poi demolito a New York e Los Angeles dove i problemi endemici delle rispettive franchigie furono “risolti” con l’esonero di un allenatore considerato incapace – secondo gli esperti d'Oltreoceano – di adattarsi a un basket diverso, più americano, più vincente, soprattutto nei playoff.

I luoghi comuni che circondavano D’Antoni erano più o meno gli stessi di quelli che girano oggi intorno alla figura di Blatt. Nemmeno la gestione di due stelle come Nash e Stoudemire ai Suns era servita a levargli la nomea di allenatore “debole (europeo) a cospetto i forti (gli all star USA)”. Ecco, a distanza di quasi tre anni i Knicks così come i Lakers si ritrovano al penultimo posto delle loro conference e New York sta vivendo – al momento le sconfitte sono 29 su 34 partite ­ – uno dei peggiori momenti della sua storia. Un altro indizio che non fa neanche una mezza prova, ma la certezza che i problemi delle due franchigie fossero molto più ampi di quelli relativi alla guida tecnica.

A risollevare l'onore dei coach europei sembrerebbe averci ha pensato l’ingaggio di Ettore Messina, avvenuto la scorsa estate, come vice allenatore dei San Antonio Spurs. Un premio meritato alla carriera dell’allenatore catanese che, complice una breve assenza per motivi di salute del capo allenatore Gregg Popovich, è diventato anche il primo europeo ad allenare in una partita Nba.

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Un po’ poco se vogliamo dare il giusto valore a ciò che Messina è stato in grado di vincere al di qua dell’oceano, ai giocatori che ha allenato e ai tornei – intesi come campionati nazionali, campionati europei (Messina è stato anche allenatore dell’Italia, con cui ha vinto un argento nel 1997) – che ha disputato con le sue squadre a cavallo tra fine anni’90 e metà degli anni duemila, quando tra le altre cose il livello del basket italiano era ai suoi massimi.

Ribaltando la domanda iniziale potremmo chiederci, da questa sponda dell'Atlantico, “siamo sicuri che tante delle superstar Nba di oggi sarebbero in grado di comprendere i dettami di uno che ha cresciuto e allenato gente come Sasha Danilovic”? Questione di punti di vista. E forse di rialzare, noi, la testa rispetto alla qualità della scuola europea di pallacanestro, che per fortuna può essere linguaggio universale. Anche sui parquet d'Oltreoceano.

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Teobaldo Semoli