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Abdul Jeelani: vita, morte e anedotti di un mito del basket anni Ottanta

Alessandro Fantozzi lo ricorda alla Libertas Livorno, mentre Simone Santi (Lazio Basket) ne racconta gli anni a Roma da "coach di strada"

Abdul Jeelani, al secolo Gary Cole prima di diventare musulmano, tra i più carismatici protagonisti del basket italiano negli anni Settanta-Ottanta, è morto a 62 anni giovedì 4 agosto nel Winsconsin dopo un’esistenza difficile, segnata da due matrimoni falliti, un tumore superato e un periodo di povertà che lo hanno anche portato a vivere in un centro per senza tetto.

Il ricordo di Alessandro Fantozzi 
Arrivato in Italia nel 1977 alla Lazio Basket, scrisse però con la maglia della Libertas Livorno (dal 1981 al 1985) le pagine più belle della sua storia cestistica italiana, aprendo di fatto l'epoca d'oro culminata nel 1989 con la tuttora discussa sconfitta in gara 5 di finale contro Milano.

Tra i suoi compagni d'allora Alessandro Fantozzi, playmaker e storica bandiera di quella squadra: “Con Abdul abbiamo passato quattro anni intensi. Sicuramente averlo come compagno di squadra mi ha formato parecchio e mi ha aiutato a crescere", racconta. "Quando lasciò Livorno lo persi completamente di vista ed ero all’oscuro di tutto quello che gli era capitato. Lo incontrai di nuovo nel 2012 per una storica partita delle vecchie glorie Libertas-PL”.

Partita che vide di nuovo gremito il palazzetto dello sport di Livorno, con i tifosi che tirarono fuori le vecchie sciarpe impolverate di quasi venti anni. “Nonostante le vicissitudini mi apparve molto sereno e mi ricordò lo stesso atteggiamento che aveva quando giocavamo insieme", prosegue Fantozzi. "Era una persona piena di vita che amava sorridere e che sapeva trasformarsi in un vero e proprio showman: il suo gioco era istrionico e irriverente, un po’ come era lui fuori dal campo”.

Quel sabato mattina...
Anche se un difetto Abdul Jeelani lo aveva: “Non amava molto allenarsi e, soprattutto, era contrario alle sedute mattutine", ricorda sempre Fantozzi. "Lui viveva a Tirrenia, sul lungomare, e tantissime volte non si presentava, dicendo che c’era troppa nebbia per guidare fino a Livorno. Ma l’aneddoto più divertente è questo: un sabato mattina prima di una partita importante, dopo che i coach avevano redarguito Abdul sull’importanza di essere puntuale agli allenamenti, si presentò in palestra un ragazzo mai visto prima che, con borsone a tracolla, chiese dove erano gli spogliatoi perché doveva allenarsi con noi. Alla richiesta del coach su chi fosse, il ragazzo rispose che aveva conosciuto Jeelani alla base militare americana di Camp Darby, a Tirrenia, e che Abdul gli aveva detto di andarsi ad allenare al posto suo, perché quella mattina non sarebbe proprio riuscito a presentarsi...”.

Un progetto vincente
Nel 2011 Simone Santi, presidente della Lazio Basket che da bambino aveva visto giocare Jeelani rimanendone impressionato per sempre, decise di cercare di contattare l’ex Libertas per coinvolgerlo in un progetto che puntava sulla pallacanestro per coinvolgere ragazzi di zone disagiate della periferia di Roma. "Dopo vari tentativi a vuoto, scrissi via Facebook a Karima, figlia di Jeelani, che mi diede il numero del centro per homeless dove viveva Abdul, che però aveva pendenze economiche negli Stati Uniti e per questo era senza passaporto", racconta Santi. "Facemmo allora partire una campagna di crowdfunding per pagargli i debiti e riuscimmo a farlo tornare in Italia per il Progetto Colors".


Ricordato anche in Mozambico

Tornato Jeelani negli States dopo due anni a Roma, il progetto al quale aveva contribuito con entusiasmo si è poi evoluto nella costruzione di un centro sportivo all’orfanotrofio di Zimpeto, in Mozambico, dove Santi ha appreso la notizia della morte di Jeelani: "Ho parlato di lui e della sua vita ai ragazzi qui, dicendo che ne ricorderò sempre il sorriso e la voglia di vivere", prosegue il presidente della Lazio basket. "Prendeva tutto con filosofia e, nonostante quello che aveva passato, non era rancoroso nei confronti della vita. Era sempre sorridente ed era felice di aiutare i bambini sfortunati. Me lo diceva anche ultimamente perché, dopo i due anni a Roma, ci sentivamo spesso. L’esperienza in Italia lo ha aiutato a ritrovare fiducia e a Racine, dove viveva negli Usa, aveva ripreso la sua missione, insegnando con la pallacanestro l’integrazione a bambini di strada in una scuola musulmana".

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Gianpaolo Ansalone