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Atleti geneticamente modificati: sono già in gara?

Per la prima volta alle Olimpiadi di Rio è stato usato un test sul doping genetico

Non si sa ancora se le analisi sono già state fatte sul sangue degli atleti in gara a Rio, o se verranno fatte nei prossimi mesi sui campioni prelevati durante i Giochi Olimpici.

Quel che è certo è che il primo test per verificare se nella corsa al successo gli atleti sono arrivati al punto di manipolare il loro DNA è pronto, ed è già stato usato o lo sarà presto.

È un tipo di doping avveniristico e di cui si sussurra da anni quello che il nuovo esame dovrebbe rivelare, il cosiddetto doping genetico.

Dopo il primo annuncio della Wada, l’autorità di controllo sul doping, alla vigilia delle Olimpiadi, il Comitato olimpico si era affrettato a precisare che il test sarebbe stato utilizzato non “durante” i giochi, ma dopo, sui campioni raccolti, e i risultati utilizzati per il futuro.

Ma è possibile che gli atleti geneticamente modificati siano già in gara? “È molto difficile. Il doping genetico è complicato, come del resto la terapia genica per le malattie che solo oggi, dopo quasi trent’anni di ricerche, comincia a dare i primi risultati” risponde Mauro Giacca, direttore del Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologie di Trieste. “Però è una frontiera vicina”.

Che cos'è. Il doping sui geni è per così dire una derivazione delle tecnologie usate in medicina per la terapia genica: si cerca di correggere un difetto nel DNA utilizzando come vettore, introdotto all’interno del corpo, un virus “caricato” con la versione sana di un gene. In teoria, si potrebbe pensare di fare lo stesso in maniera utile a migliorare le prestazioni sportive, utilizzando geni noti per aumentare la resistenza, i muscoli o ottimizzare il metabolismo energetico. “Ho visto topi che nuotavano ore e ore senza stancarsi” racconta Giacca, che nel suo laboratorio studia i geni coinvolti nella riparazione del muscolo cardiaco.

Geni da sfruttare. Non a caso, fin dalla pubblicazione dei primi studi in terapia genica, diversi ricercatori hanno confessato con loro sorpresa di essere stati contattati da allenatori e atleti interessati a saperne di più e a sperimentare in prima persona le possibili applicazioni. L’interesse è per geni come l’IGF-1, che introdotto nei muscoli di topi ha dimostrato di promuoverne la crescita, o quello per l’EPO, che i ricercatori stanno cercando di sviluppare sotto forma di terapia genica per i pazienti che soffrono di anemia grave, e che per gli atleti costituirebbe un modo per far produrre “naturalmente” al corpo maggiori quantità dell’ormone eritropoietina, senza ricorrere alla versione sintetica dell’ormone come nel doping classico.

Difficile scoprirlo. Il nuovo test, messo a punto in un laboratorio australiano e accettato ufficialmente dalla Wada, verificherà proprio il doping genetico sull’eritropoietina, analizzando la sequenza dei geni che codificano per l’ormone per individuare alcune anomalie caratteristiche che segnalerebbero l’introduzione di un segmento di DNA “estraneo”. Sarebbe solo il primo, perché l’eventuale doping può essere fatto con molti tipi di geni diversi, ognuno con varianti di sequenze. Non sapendo che cosa cercare di preciso, è molto difficile capire se ci sono state delle manipolazioni. “Inoltre”, aggiunge Giacca, “si parla già di usare RNA per regolare alcune funzioni, invece che per modificare il genoma: l’effetto è relativamente breve e praticamente irrintracciabile”.

Di sicuro c’è che, nonostante i risultati stupefacenti sugli animali e allettanti per gli atleti, i rischi per la salute sono enormi. “Il doping genetico è molto difficile da controllare dal punto di vista della quantità e della durata” dice Giacca. “Inserendo il gene, è un po’ come se uno si dopasse di eritropoietina per tutta la vita”.

 

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Chiara Palmerini