Morto "Hurricane" Carter, pugile che non ha combattuto invano
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Morto "Hurricane" Carter, pugile che non ha combattuto invano

Riconosciuto innocente dopo 19 anni di carcere, è diventato un simbolo della lotta all'ingiustizia. La sua storia cantata anche da Bob Dylan

di Sergio Meda / www.sportivamentemag.it

Rubin “Hurricane” Carter non ce l’ha fatta, ma ha resistito ben più dei sei mesi che i medici gli avevano pronosticato tre anni fa, dopo avergli diagnosticato il tumore alla prostata che l'ha messo definitivamente ko a 76 anni nella sua casa di Toronto. Sino all’ultimo il pugile consacrato all’immortalità da una canzone di Bob Dylan ha però commosso e soprattutto coinvolto l’America dei giusti, continuando a battersi per la sorte di chi negli Stati Uniti viene accusato ingiustamente: lui che da innocente aveva scontato 19 anni di reclusione per un triplice omicidio mai commesso, dopo essere stato condannato solo in base ai suoi precedenti di piccolo delinquente.

Nato il 6 maggio 1937, Carter cresce a Paterson, New Jersey, in una famiglia con sei fratelli, ma ben presto finisce nei guai: appena compiuti i 14 anni, gli si aprono le porte del riformatorio per aggressione e furto. Nel 1954 scappa e si arruola nell'esercito. Superato l'addestramento a Fort Jackson, Carolina del Sud, viene trasferito in Germania, dove comincia a tirare di boxe. Non è però un buon soldato e per quattro volte in 21 mesi finisce davanti alla Corte Marziale per insubordinazione: lo giudicano non idoneo al servizio e lo congedano nel 1956. Al ritorno in New Jersey lo arrestano e lo condannano per una fuga dal riformatorio. Sconta la pena (lieve), ma incorre subito in un altro incidente di percorso: aggredisce e rapina una donna di mezza età e ritrova subito il carcere del New Jersey, che lo ospita questa volta sino al settembre 1961. Ne esce pronto per il lavoro che ha scoperto di amare: ormai sa infatti di essere un pugile destinato a diventare un campione.

Nonostante la statura relativa (170 cm), Carter combatte da peso medio. Fisicamente è ben strutturato, ha tanta grinta e la esibisce sul ring. Gli avversari temono lo sguardo a fessura e la testa rasata li intimidisce. Presto il pubblico lo adotta: nasce così l’appellativo di "Hurricane" (“Uragano”), che lo accompagnerò per tutta la sua breve ma emozionante carriera. Rubin mostra di sapere il fatto suo battendo avversari di valore: Holley Mims, Gomeo Brennan, Florentino Fernandez e George Bentos sono le sue credenziali del 1963, tanto che nel luglio di quell’anno la rivista Ring Magazine lo inserisce nella sua prestigiosa “Top 10”. Quell’anno annota quattro vittorie e due sconfitte, con il vero colpo da fuoriclasse che gli riesce il 20 dicembre, quando manda al tappeto per due volte nel primo round il quotatissimo Emile Griffith: vince per ko tecnico e il successo lo accredita come sfidante al titolo mondiale dei medi, allora detenuto da Joey Giardello. Il match si disputa a Philadelphia, Carter è in vantaggio ai punti, ma i giudici all'unanimità ribaltano il verdetto: a bordo ring si scatena un vero e proprio putiferio, ma Carter non inoltra alcun reclamo.

L’ingiusta sconfitta lascia però il segno: “Hurricane” si demoralizza e nel 1965 perde ben quattro dei cinque incontri disputati. Poi arriva il dramma che ne chiude la carriera: il 17 giugno 1966, presso il Lafayette Bar di Paterson, New Jersey, intorno alle 2,30 del mattino due uomini di colore entrano nel locale e sparano all'impazzata. Tre i morti, il solo sopravvissuto perde un occhio. Alfred Bello, noto criminale, è presente e avverte la polizia. Gli assassini sono a suo dire due uomini di colore che sono scesi da un’auto bianca. E la macchina di Rubin Carter coincide con quella vista dai testimoni: con al suo fianco un amico, John Artis, viene fermato dalla polizia, che li porta sul luogo della strage. Nessuno prende le impronte digitali dei due né li sottopone alla prova del guanto di paraffina per capire se avessero sparato di recente. Vengono quindi lasciati andare, ma in seguito la polizia trova nella macchina di Carter una pistola calibro 32 e dei proiettili per fucile calibro 12, gli stessi usati nell’eccidio. Alfred Bello supera l’esame della macchina della verità e viene considerato attendibile, contribuendo così alla condanna di Carter e Artis. In seguito Bello ritratta la testimonianza e Carter e Artis chiedono un nuovo processo, che viene però negato dal giudice...

Nel 1975 Bob Dylan dedica a Carter una bellissima canzone, dal titolo appunto “Hurricane”, e l’anno successivo la Corte Suprema degli Stati Uniti concede un nuovo procedimento, durante il quale Bello cambia nuovamente versione e torna a sostenere la colpevolezza dei due: Carter e Artis vengono nuovamente condannati alla prigione a vita, ma dopo tre anni i loro avvocati si appellano alla Corte Federale. Si arriva così al 1988, quando i procuratori del New Jersey archiviano gli atti d'accusa originali, facendo quindi cadere l'intero procedimento. A 48 anni Carter torna quindi libero e inizia a occuparsi di un’associazione che si batte per le vittime incolpevoli e ingiustamente carcerate. Nel 1999 la sua storia viene raccontata al grande pubblico da un film (“Hurricane - Il grido dell’innocenza”) con protagonista Denzel Washington. L’Università di York, Canada, gli conferisce in seguito la laurea ad honorem in giurisprudenza: è l’ultima vittoria di un pugile sfortunato, ma che non ha combattuto invano. Con l'annuncio della morte dato proprio da John Artis, che ha condiviso sino alla fine l'avventura terrena del suo amico e per lunghi anni compagno di cella Rubin Carter.

Sergio Meda, autore di questo articolo, è direttore del sito Sportivamentemag, magazine on line che tutela lo sport e le sue regole, proponendo storie e riflessioni.

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