Basket: Il ritorno di Varese
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Basket: Il ritorno di Varese

Dopo 25 anni la Cimberio chiude in testa la regular season; un periodo raccontato da Cecco Vescovi, allora giocatore, oggi presidente

Con la vittoria n°23 su 29 partite ai danni della Scavolini Pesaro, la Cimberio Varese si è assicurata con un turno di anticipo il primo posto nella regular-season del Campionato italiano di basket: un primato che i lombardi non conquistavano da ben 25 anni, ovvero dalla stagione 1987-1988 con l'allora Divarese allenata dalla leggenda Joe Isaac. Ma un po' per scaramanzia (quella Varese venne poi superata in semifinale proprio dalla Scavolini Pesaro di Valerio Bianchini, successiva vincitrice del titolo) e molto per le capacità di sorprendere al di là di ogni aspettativa iniziale, questa Cimberio richiama alla mente dei tifosi varesini soprattutto i "Roosters" che si aggiudicarono lo scudetto della stella nell'ormai altrettanto lontano 1999. Era quella la squadra delle "teste matte" Gianmarco Pozzecco, Andrea Meneghin e Sandrino De Pol, ma anche del "senatore" Francesco Vescovi, oggi passato dal parquet alla scrivania nel ruolo di presidente del club. Proprio con "Cecco" mettiamo idealmente l'una contro l'altra la Varese di allora con quella di oggi…

Varese 1999, Varese 2013: cos'hanno in comune queste due squadre?
"Difficile fare paragoni, perché in tutti questi anni il basket è cambiato davvero molto. In questa Varese vedo però la stessa capacità di riportare un enorme entusiasmo per la pallacanestro non solo al palazzetto ma anche in città. E poi, allora come oggi, ci troviamo davanti a giocatori che hanno subito capito che la loro forza stava nel diventare un gruppo. Con una differenza sostanziale rispetto al 1999: quella Varese partiva da un nutrito e coeso "blocco" di italiani che ne favoriva l'assemblaggio, mentre questa – come ormai accade sempre più spesso negli sport di squadra – è un puzzle umano di cui siamo stati fortunati a trovare tutti i tasselli giusti. Perché puoi visionare video e prendere informazioni finché vuoi, ma poi il famoso amalgama lo verifichi solo in spogliatoio".

Continuiamo con il gioco delle similitudini. Per quanto unici e inimitabili, ci sono in questa Cimberio un Gianmarco Pozzecco e un Andrea Meneghin, ovvero dei leader capaci di trascinare i compagni sul parquet come il pubblico in tribuna?
"Non solo per il suo ruolo di play Mike Green è certamente il leader in campo, mentre Ebi Ere – che non a caso abbiamo scelto come capitano - è quello solare, capace di coinvolgere i compagni e di tenere alto l'umore del gruppo. Ma devo dire che anche tutti gli altri sono persone estremamente positive e motivate, disponibilissime a entrare in contatto con i tifosi e con la gente di Varese in tutte le iniziative che organizziamo e in cui veniamo coinvolti in qualità di Consorzio. Dagli incontri con i dipendenti delle aziende che ci sostengono a quelli con gli studenti nelle scuole, passando per le tante iniziative di beneficenza, la squadra ha davvero cementato un ottimo rapporto con il suo pubblico, e questa è un'altra somiglianza con il 1999".

Similitudine tecnica: allora avevate Daniel Santiago come centro dominante, oggi Bryant Dunston non gli è certo da meno...
"Credo che nel basket, se si vuole puntare a vincere, l'asse play-pivot debba sempre essere di un certo livello. In questo senso il duo Pozzecco-Santiago rappresentava quello che è oggi la coppia Green-Dunston: la base su cui fare leva per massimizzare poi le qualità di tutti gli altri. A livello individuale, pur con tutte le inevitabili differenze, l'impatto di Dunston sotto canestro è poi davvero molto simile a quello che ebbe Santiago".

Veniamo ai coach. Charlie Recalcati e Frank Vitucci: ad accomunarli c'è solo l'americanizzazione del nome di battesimo o anche altro?
"Dal punto di vista tecnico sono in effetti molto simili: due allenatori che amano far giocare le proprie squadre dando delle precise tracce di gioco, ma lasciando poi i loro uomini liberi di leggere le varie situazioni tattiche che si presentano sul campo. Va però detto che in occasione dello scudetto della stella Charlie era già un allenatore di un riconosciuto livello, mentre Frank sta crescendo con la squadra e - proprio come i suoi giocatori - deve confermare quanto di buono fatto in altre stagioni. Altra differenza: Vitucci ha un carattere più 'incazzoso', anche se sempre con uno spirito assolutamente positivo, mentre Charlie è un tipo più riflessivo, che ai tempi cercava sempre di farci capire le cose con percorsi tutti suoi".

A proposito di percorsi: Varese, come tanti altri club, ne ha dovuto affrontare uno assai tortuoso che però l'ha riportata nel basket di vertice. Anche qui: cos'è rimasto e cos'è cambiato rispetto al 1999?
"L'assetto societario è profondamente diverso, visto la nostra attuale natura di Consorzio, ma rispetto al 1999 e quindi alla famiglia Bulgheroni, allora proprietaria del club, c'è a mio avviso un importante elemento di continuità: la volontà di non andare mai oltre le righe, cercando di sdrammatizzare le situazioni in nome di un vero senso dello sport. Vedi l'esempio di Sassari, quando come società abbiamo cercato di smorzare subito le polemiche, evidenziando come si dovessero considerare più i nostri errori durante tutta la partita che quello finale di un arbitro. Altro fattore in comune: la convinzione di dover sempre fare il passo secondo la gamba per non rischiare un fatale capitombolo economico. Nelle ultime Final Eight di Coppa Italia abbiamo ad esempio deciso di non rimpiazzare a gettone gli infortunati Ere e Banks, sfruttando invece di più le risorse interne, perché non potevamo permettercelo. E finché occuperò il mio attuale ruolo, mi batterò perché prevalga questo approccio, l'unico davvero vincente".

Chiudiamo sul personale: come hai vissuto i playoff di allora e come vivrai questi?
"Da giocatore, nel 1999, li ho vissuti con una grandissima tensione, perché per me a quasi 35 anni e dopo aver perso diverse finali, era davvero l'ultimo treno per vincere un titolo e per di più nella mia città. Ora la tensione è la stessa, ma combinata con la serenità che nasce dalla consapevolezza di aver comunque fatto una stagione stupenda. Per quanto fatto vedere in regular-season, credo che meritiamo lo scudetto, ma sappiamo tutti quanto duri e incerti siano sempre i playoff".

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Paolo Corio