Addio Mennea, il bianco che correva come un nero
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Addio Mennea, il bianco che correva come un nero

Vinto da un male incurabile. Aveva 61 anni. Il suo impegno nello sport e nella politica

Un male incurabile se l'è portato via nel primo giorno di primavera.

Destino crudele per l'uomo che correndo nel vento ha costruito una leggenda e reso onore allo sport italiano. Duro, spigoloso come le sue origini, mai banale e pronto anche a pagare di prima persona per le sue idee. Pietro Mennea ha smesso di correre in una clinica romana dove da tempo combatteva una battaglia impossibile. Aveva 61 anni e tutto lo sport azzurro lo piange perché con lui se ne va un pezzo di storia impossibile da dimenticare.E' stato il più veloce dei bianchi, l'ultimo capace di mettersi dietro i neri che da lì in poi avrebbero dominato. Un atleta che ha fatto la storia non solo dello sport italiano se si considera che il suo tempo sui 200 metri è ancora record europeo e in Italia nessuno è riuscito nemmeno ad avvicinarlo.

Chi ha qualche capello bianco in testa ricorda bene le sue imprese.Per cancellarlo dall'albo dei record del mondo si è dovuto scomodare Michael Johnson in persona.

La sua corsa nell'afa di Città del Messico durante le Universiadi del 1979 era finita dritta dritta nella leggenda dei primati più longevi. Dal 1979 al 1996: diciassette anni senza che nessuno riuscisse a correre i 200 metri piani in meno di 19''72, il tempo fissato da Pietro Mennea e rimasto per un'eternità il più veloce di tutti malgrado l'apparire sulla scena di autentici monumenti dello sprint.

Partenza lenta e caracollante, sensazione di essere tagliato fuori in curva e poi una progressione meravigliosa nei 50 metri conclusivi che spesso si chiudeva sul traguardo con le braccia alzate. Pietro Mennea è sempre stato così.

Carattere forgiato nelle asprezze della sua terra, la Puglia che lo ha visto crescere e affinare le sue doti.Narra la leggenda che quindici anni sfidasse su una strada di Barletta una Porsche e Un'Alfa Romeo per guadagnarsi 500 lire e potersi permettere un panino o il cinema. Da lì non ha più smesso di correre fino a trovarsi sul podio olimpico a Monaco di Baviera nel 1972. L'inizio di una meravigliosa cavalcata che lo ha visto medaglia d'oro a Mosca 1980 (senza avversari statunitensi per via del boicottaggio) e ancora in finale a Los Angeles e in batteria a Seul, l'ultima passerella olimpica di una carriera straordinaria.Lui con la bandiera in mano nel giorno dell'inaugurazione e poi in pista per la quinta Olimpiade consecutiva che rappresenta anch'essa un record considerata la specialità.

Il palmares parla da solo: due bronzi olimpici oltre all'oro di Mosca, due medaglie mondiali, sei europee e una sfilata infinita di risultati e soddisfazioni in un'epoca in cui la velocità non era ancora il regno incontrastato degli afro-americani. Immagini in bianco e nero e non solo per questioni di tecnologia delle riprese. Dopo di lui non è più stato possibile o quasi vedere un europeo non di colore sfrecciare più veloce dei suoi avversari caraibici o statunitensi.Non solo una questione di muscoli perché la storia di Mennea ha dimostrato come invece la tecnica degli sprinter può appartenere anche a un uomo venuto su nelle strade polverose del Sud Italia. Orgoglioso e testardo, nemmeno il dopo carriera di Mennea è stato banale. Eurodeputato a Bruxelles, avvocato, commercialista, autore di libri e sempre animato da spirito polemico.Non ha più vissuto da dentro il mondo dell'atletica e spesso i suoi interventi sono stati mal digeriti dai vertici dello sport italiano. Il suo curriculum fa paura anche fuori dalla pista.

Aveva quattro lauree: scienze politiche, giurisprudenza, scienze motorie e lettere. Si era occupato di class action e insegnato educazione fisica. Non ha mai smesso di correre pur senza continuare a frequentare i salotti che contano. Solo la malattia poteva fermarlo. Il primo giorno di primavera.

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Giovanni Capuano