Venezia, il Festival e il miraggio della mondanità - Day 6
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Venezia, il Festival e il miraggio della mondanità - Day 6

La kermesse, i suoi personaggi e tutto quello che ci sta intorno. Vista con gli occhi di uno scrittore - Day 1 - Day 2 - Day 3 - Day 4 - Day 5 - Le madrine - Le immagini: 1 - 2 - 3 - 4

Perduti. I film della mattina. Perduti. Per fortuna pare che Under the skin, con Scarlet Johansson, sia una porcata senza senso. A ogni modo mi sveglia una telefonata di lavoro. È il direttore XY. Dove sono finito? Non è una domanda facile a cui rispondere. Così vengo insultato. Non è il modo migliore per iniziare la giornata.

Il fatto è che dire “non stavo dormendo, meditavo” se non viene presa come una battuta simpatica sembra vagamente una presa per il culo. Mentre frugo alla disperata ricerca di biancheria pulita arriva di corsa, nella camerata dell’ostello, un tipo tutto muscoloso, depilato, in braghelle e canotta scollata con le scarpe da corsa. Corre, il maledetto. Io, l’ultima volta, sono andato domenica. 10 minuti, per prendere i giornali e ritorno. E mi stava per venire un embolo. E lui corre. È uno di quel baldi giovanotti in gran forma, faccia pulita, sorriso genuino, mascella quadrata.

Sto per togliermi la maglietta per fargli capire che sono più tatuato e cattivo di lui ma ho paura che sembri una cosa da gay. Nel frattempo ho perso anche Kim Ki-duk. La cosa peggiore è che mentre mi abbandono a complicati piani per umiliarlo (se ci sapessi giocare lo sfiderei a scacchi) il ragazzetto mi soffia la doccia libera, si veste e si prepara prima di me. Al collo, il nastrino della Biennale di Venezia con un accredito di cui non riesco a capire il colore. Giuro che è se è rosso lo uccido.

Arrivo al Lido con un ritardo esagerato sulla mia tabella di marcia. Non ci sono film vedibili. Così vado nella sala conferenze. Entro che ancora c’è quella di Still life, film davvero piacevole. Una piccola perla. Segue quella di Amos Gitai, piena di valide riflessioni in difesa di un brutto film. A un serafico Gitai un inviato de la Voce dell’ingegnere domanda se ha usato un dolly per riprendere la scena finale e se in futuro pensa di rivolgersi a un numero crescente o decrescente di ingegneri per realizzare i suoi prossimi piani sequenza.

Finalmente arriva il grande pazzo coreano che presenta fuori concorso Moebius. Solita casacchina da contadino fighetto, neanche da sperare che abbia imparato un parola di inglese. Il film sembra parli di un mezzo incesto. In ogni caso, assicurano sia difficile da sostenere visivamente per scene di sesso esplicito e automutilazione.

Finita la conferenza stampa mangio una pesca. Perché stamattina, nel panico depressivo che segue al mix sbagliato di alcol e panini al salame, ho avuto una spinta salutista e ho comprato un kg di pesche e due litri di succo d’arancia per pranzo. Il che aumenta la mia depressione.

Ho ancora un po’ di tempo prima di mettermi disperatamente in fila a contendermi il posto con gli altri accreditati e col pubblico per l’ingresso in Sala Perla. Poco fa c’è mancato poco che un piccolo drappello di accrediti gialli (che sono un po’ i teppisti della stampa, scrivono per il web, cos’anno da perdere?) veniva alle mani con un beffardo addetto alla sicurezza.

Dopo il lauto pranzo vado a lavarmi i denti e ne approfitto per cambiare l’acqua al pesce rosso. Ormai i bagni della sala stampa sono una seconda casa (ci ho lavato anche le pesche, nel lavandino). Sembra di stare a scuola. Alla fine vai in bagno e incontri costantemente la stessa gente.
Alla fine, dopo un milione di minuti di coda chilometrica, riesco a entrare in sala. Moebius. Mi aspetto qualcosa di atroce. Invece sembra l’apologia di Lorena Bobbit, quella che aveva tagliato il pene al marito fedifrago e l’aveva gettato sull’interstatale.

Voi non mi crederete, ma se il film non fosse di un venerato maestro del cinema (talmente venerabile che quando ha vinto il Leone d’oro l’anno scorso ha cantato ispirato una roba coreana, tre volte, tanto per inquadrare il tipo) sembrerebbe una parodia splatter.

In una girandola morbosa e totalmente immotivata di prese di posizione a un inverosimile numero di personaggi viene asportato (o si autoasportano) il pene con una lama affilata. Qualcuno, dopo essersene fatto trapiantare uno nuovo, rischia di essere nuovamente evirato.

Nel frattempo i castrati, nuovamente arrapati a pochi minuti dal taglio netto, scoprono su Google un nuovo modo per raggiungere il piacere: sfregarsi una pietra ruvida su un piede fino a sanguinare. E via via finiscono per conficcarsi un coltello nella schiena  e rigirarlo nella piaga a vicenda. La sala ride impazzita. Alla fine del film Kim si alza sornione. Sorride. Per fortuna non canta. Darei le pesche restanti per poter vedere per 5 secondi cosa gli frulla in testa. Immagino sia qualcosa tipo: vi ho fregati ancora una volta, maledetti bianchi radical chic.

Per mia fortuna, oltre alle pesche, avevo comprato un pacchetto di gocciole extra dark, per sicurezza, contro il bisogno spasmodico di nicotina. Tra gli sghignazzi della sala, per il nervoso, ho finito il pacchetto (di biscotti). Penso a quel tipo in ostello, con la sua forma fisica perfetta che accumula vantaggio. E penso che potrei sempre tagliargli il coso mentre dorme per vendicarmi. E lasciargli il coltello nella branda, nel caso volesse consolarsi con un po’ di autoerotismo coreano.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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